Il Tempo, che misura il dinamismo di ogni gesto dell’umanità, ha fatto deragliare tutti i linguaggi dell’arte contemporanea. Ha espulso ogni specifico che diversificava le arti tra loro, agitando lo Spazio e sottraendolo alla sua immobilità.
Shimamoto, protagonista storico del gruppo Gutai, ha assecondato la dimensione invasiva del tempo nello spazio della pittura.
Il gesto, il lancio della pittura a distanza sulla tela diventa velocità, erotismo e desiderio di allargare il campo magnetico dell’opera attraverso l’introduzione del caso.
Se Michelangelo si riconosce nella forma antropomorfica delle sue figure, Picasso nel frullante erotismo delle sue scomposizioni cubiste, Shimamoto trova nel reticolo delle sue scomposizioni labirintiche non tanto la propria immagine allo specchio ma l’anxietas della condizione moderna, in cui l’uomo è necessariamente indeterminato. La sua performance deambulatoria è frutto di una coscienza dell’irreversibile perdita del centro nell’arte e nella vita.
Automatismo significa dunque libertà del linguaggio di comportarsi e di aggregare nuovi sensi anche al di fuori della volontà progettante dell’artista, il quale anzi lascia che altri fattori intervengano nell’opera a determinare un allargamento del senso, fino alla sua trasformazione in puro significante. Ciò significa che l’artista non desidera passare da una certezza a un’altra, bensì produrre degli slittamenti come movimento perpetuo del senso che non si stabilizza mai.
In ogni caso tali processi avvengono secondo modalità impreviste, non condizionate dalla volontà ma sottoposte a regole imponderabili. Così anche per il surrealismo entrava nel gioco dell’arte l’imprevedibilità determinata questa volta dalla natura stessa dell’inconscio, che espande e dilata l’intenzionalità dell’opera.
L’arte di Shimamoto diventa una pratica ulteriore dello sconfinamento e dell’espansione, nel senso che recupera come valore anche i territori del pensiero stordito, dell’impulso che filtra direttamente oltre la censura della forma e malgrado essa.
L’artista giapponese dunque compie un gesto inusitato, effettua un movimento inconsulto che infrange i canoni del buon vivere della ragione per effettuare una sgomitata tra i rigidi paletti delle cose e mandarli all’aria.
Shimamoto ci ha liberato dal peso gravitazionale, ci ha insegnato che ben altre materie e ben altri magmi si muovono sotto l’apparente armistizio che regola la distanza tra i corpi solidi e i nostri corpi gasati. Ha perforato la corazza e la pelle dei fenomeni, per rovesciare davanti ai nostri occhi le viscere interne che fermentano oscuramente senza decoro e senza sosta.
Ma per arrivare a questo bisogna prima disarmarsi, bisogna che l’artista abbandoni ogni controllo e si abbandoni letteralmente ai buchi neri dell’inconscio. Dopo Freud, l’arte non è più il ponte levatoio che porta verso verticali purezze ma diventa la talpa che scava in profondità per risucchiare verso l’alto della forma i flussi e i miasmi esalanti da un luogo interdetto alla ragione e alla memoria ragionevole. L’inconscio con le sue stratificazioni e ossidazioni, con la sua temporalità circolare, preme con la sua emergenza.
In Shimamoto l’automatismo diventa l’imperativo categorico di una nuova creatività aperta all’impulso che sale come un conato e si afferma per la sua intensità e non per la sua chiarezza. L’intensità diventa la verità che autorizza il gesto pittorico, che benda i tanti occhi della ragione facendola inciampare nel campo dionisiaco del puro desiderio. I movimenti corrispondono a quelli dello spazio onirico, teorizzato da Freud, quelli dello spostamento e della condensazione, ma anche di un pensiero orientale aperto felicemente al caso.
L’automatismo del gesto è direttamente proporzionale all’automatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del profondo. La materia dell’arte è l’inconscio con la sua energia, l’immaginario che vola in tutte le direzioni, disseminato a tutte le altezze e le bassezze.
L’immaginario è un’energia mentale che non tocca solamente il livello corticale ma attraversa tutto il corpo dell’artista, inteso come campo elettrico che genera catene di emozioni e scatena impulsi che, senza l’esperienza dell’arte, resterebbero accovacciati dentro l’incavo dell’oscura inconoscibilità. La creatività artistica diventa l’arpione che agguanta la scheggia luminosa e notturna dentro il magma dell’inconscio.
La forma porta alla luce l’oscurità, promuove la salita e la chiara esposizione del dettaglio che neppure l’artista riesce a denominare senza il gesto garante dell’arte. Non basta alzare gli occhi in alto, non basta interrogare, come gli auspici del passato, il cielo, ma è necessario grattarsi letteralmente sotto la pelle per fare affiorare il rimosso.
Grattare è ciò che fa Shimamoto scoprendo per l’arte ciò che il gioco infantile pratica, una maniera di strofinare l’anima dell’oggetto per farla affiorare come ombra e immagine sublimale. La mano non si contrappone alla realtà nel tentativo di imitarla ma la asseconda tramite la beata ottusità del gesto che non conosce direzione per il proprio movimento se non quello edonistico dell’automatismo.
Shimamoto opera all’incrocio di una doppia tradizione. Una legata alle avanguardie storiche, nella figura strategica di Marcel Duchamp col suo ready-made, l’altra derivante dalla filosofia orientale e dalla linea esoterica di Castaneda che lo porta verso la valorizzazione del caso. Questo è sollecitato attraverso tecniche promananti dal quotidiano e dall’uso di utensili non appartenenti all’apparato tecnico-espressivo della storia dell’arte. Shimamoto adopera la precisione del cacciatore ed il dolore della preda.
Qui l’artista diventa il portatore di fucile, di una vista sintonizzata sulla distanza del vicino e del lontano, pronta all’inquadratura di un dettaglio esterno che diviene immediatamente bersaglio. L’artista orientale usa il cannone o il fucile come protesi per ridurre l’intervallo spaziale tra il proprio corpo e la realtà circostante. Utilizza superfici di ogni tipo su cui far esplodere bombolette di colore, colpi cromatici che trafiggono la carne del supporto (tela, carta, legno) e la rompono secondo squarci imprevedibili e slabbrati, ferite senza possibilità di cicatrice.
Così queste superfici diventano spalla dolente, materia trafitta dai colpi dirompenti del cannone o del fucile che lacera crudelmente ogni levigatezza, scelta a caso ed a caso trasformata in altro da sé.
Dolente diventa ogni materiale trafitto dall’attenzione dell’artista che colpisce, brucia, sgocciola e spruzza fuori dal proprio spazio corporale energia pulsionale. Essa ha bisogno di una sosta, di un bersaglio, formalmente definito, capace di trattenere a futura memoria l’impeto aggressivo di un bisogno espressivo, carico di erotismo e di impulsi di morte.
Perché l’arte è proprio questo: un corto circuito di eros e thanatos. Ogni fondazione di vita ha sempre bisogno di una preventiva distruzione, secondo il classico adagio nicciano. La distruzione serve a sgombrare il campo, a depurare la materia per poi poterla trattare senza scorie e pendenze.
Shimamoto ha cominciato col cut-up a sezionare, con la sadica ed amorosa cura del chirurgo, la carne indolenzita della pittura, mortificata dalla codificazione del senso, dalla conseguenzialità logico-discorsiva dell’immagine. Col taglio la pittura ha un soprassalto di dolore e di risveglio, perde l’ingessata protezione del significato e si apre a nuove possibilità.
La possibilità nasce proprio dall’irruzione del caso che percorre la pianificata superficie del foglio scritto. Come un geometrico movimento tellurico, la forbice del pittore chirurgo rimette le parole nella condizione del frammento mutilato aperto a nuove intese. L’apparizione del significante comunica non un senso pacificato ma la bellezza misteriosa dell’imprevedibile e dell’indicibile. Il trasferimento dell’operazione all’arte figurativa, ha significato per Shimamoto il passaggio dall’identità di chirurgo a quella di cacciatore. La creazione resta sempre un bussare alla porta, un chiedere permesso di accesso al caso che fa irruzione in tal modo nell’universo delle forme.
Se il cut-up (il taglio della tela in più parti) permetteva di formalizzare l’indicibile, la tecnica dello «shotgun» fonda l’apparizione dell’invisibile, ciò che all’arte chiedeva Klee. Insomma Shimamoto applica da buon sciamano orientale anche la strategia apotropaica e magica di Castaneda alla porta di Duchamp. Bussa col fucile e la porta si spalanca verso la direzione di un significante che tiene aperti i battenti verso tutti i lati.
Ecco apparire, sgocciolanti, bruciature, segnali antropomorfici, forme circolari, graffiti, squarci di varie profondità, buchi e crateri che ornano la superficie investita dai colpi di mano che l’artista produce.
L’universo di Shimamoto formato di volontari incidenti formali: il lancio di una moneta, di un pennello, un colpo di fucile, la macchia di un colore, l’introduzione di sagome di cose, alberi e uomini, presenze di foglie, griglie, maschere, pezzi di vetro rotto, puzzle fotografici e infine parole. Tutto diventa immagine. E questo è l’effetto di un’arte giocata sempre sulla trasformazione degli elementi. Una furia che comprende sempre un quoziente di caso intelligente che accompagna l’evento creativo. Se il coup de dés di Mallarmé ha bisogno di una distanza minima, di uno spazio domestico tutto europeo, l’intervallo concettuale tra il foglio e la mano che lancia i dadi, la tecnica dell’artista agisce in uno spazio tutto orientale, un intervallo lungo che tiene conto della vastità spaziale che collega in ogni caso i diversi continenti attraverso anche un sistema dell’arte multiculturale.
Shimamoto educa in tal modo lo spettatore a un’attività di precisione che pieghi la violenza ad altri scopi benefici e duraturi, come quello ulteriore di ammirare nuove forme di bellezza dettate dall’improvvisazione e dalla successiva contemplazione del risultato ottenuto.
Una coniugazione di due diverse antropologie, con l’approdo a una nuova e originale che contiene dentro di sé una sintesi capace di rappresentare un corto circuito tra il pensiero occidentale e quello orientale, tra figurazione e astrazione, narrazione e decorazione, racchiuse tutte in un’unica forma, quella dell’arte.
Il movimento eccellente dell’arte, tra hazard surrealista e vitalismo zen, aiuta a spostare il tiro, a bruciare ogni inerzia e passare ad un livello di esistenza più alto. Shimamoto allarga i confini dell’agire e del sentire. Stabilizzando la presenza del caso nella vita dell’uomo occidentale, portato all’azione progettata secondo ragione ed utilità.
L’artista non è obiettore di coscienza che rinuncia all’azione, anima bella che gode di una natura pacifica. Nel caso di Shimamoto, accetta anche l’inevitabilità della violenza piegandola a fini espressivi. Dimostrando attraverso essa come sia possibile rompere la corazza stilistica del mondo aprendola ad un nuovo sentire e percepire. L’artista è un cacciatore a fini sociali che adopera un’arma mortale per rifondare la vita.
L’immaginario dunque sprigiona energia, che poi l’arte si incarica di condensare diversamente, aprendo una doppia strada, al simbolico e al materico. Dispiega procedimenti e strategie dell’immagine che approdano a risultati complementari, in quanto tutti dettati dall’impulso a farsi parlare dalla disarticolata articolazione della surrealtà. Una surrealtà che non abita sopra gli artisti, bensì dimora fin sotto la pianta dei piedi.
Simbolico e materico attraversano costantemente Shimamoto, energia culturale e organica spesso attivano le stesse opere in una compenetrazione inscindibile. Perché la fonte a cui esso attinge è sempre l’inconscio, in cui l’inorganicità del simbolo convive con la forza proliferante dell’energia elementare. Entrambe le componenti fanno da sostanza e da collante di un nucleo in cui ogni punto è il centro, poiché non è possibile misurarne esattamente l’estensione ma soltanto il livello pulsionale e la sua continua crescita senza sosta.
L’automatismo funziona sia come associazione libera e aperta di dati che si potenziano reciprocamente, mediante un loro simmetrico estraniamento, e sia come incentivamento della casualità e della crescita spontanea. La materia si organizza al livello più basso, l’immaginario vola radente alla sostanza organica assumendo i travestimenti della stessa materia pittorica fino a identificarsi con essa; Il quadro diventa il campo d’azione di una continua me-tamorfosi, di una proliferazione che non significa soltanto crescita ma anche disseminazione mobile e dislocazione aperta. Qui metafora e metonimia tendono a saldarsi in maniera inestricabile, la pittura diventa il punto in cui la sostanza psichica precipita dentro la materia dell’arte, in cui l’immaginario corre incontro al suo approdo formale.
L’automatismo psichico e le tecniche automatiche diventano il processo ed il procedimento che libera l’inconscio facendolo affiorare, rispettandone il paradosso di uno svelamento impossibile.
L’arte non è più un fine bensì un mezzo. L’artista diventa l’uomo della conciliazione, colui che mette in un rapporto di continuità interno e esterno, che tende a sollevare il reale dal suo stato di separatezza per introdurvi la possibilità diretta dell’irruzione del profondo sulla superficie di una forma che nulla respinge e tutto trattiene.
Shimamoto ha con l’inconscio un rapporto quasi colloquiale, parla con lui in seconda persona con la sicurezza di una presenza che non ammette smentite. L’arte è proprio la prova di questo rapporto privilegiato, di chi ha come un ius primae noctis che aspetta sempre di essere esercitato e realizzato. La ricerca avviene per il tramite di tecniche elementari che riducono la puntigliosa complessità del procedimento tradizionale, per cedere il passo direttamente all’incedere del caso e della disinvolta eccedenza delle pulsioni interne. La pittura di Shimamoto è per definizione esuberante, è un gesto affermativo che ristabilisce il primato del fantasma contro l’evidenza statica delle cose. Il fantasma si insinua nei mille modi del linguaggio, in forma germinale, larvale oppure sotto le spoglie di un’immagine perturbante.
Le tecniche automatiche sono gli irriducibili tramiti, gli scandagli che vanno a pescare proprio nel torbido. Il frottage e il dripping, grattare e sgocciolare costituiscono la materializzazione di tale necessità tecnica, l’azzeramento di ogni complessità a favore di movimenti elementari che privilegiano l’autonomia della mano rispetto all’occhio, l’indipendenza dell’opera rispetto alla vigile accortezza dell’artista.
Shimamoto negli anni cinquanta pratica tali tecniche, aprendo possibilità operative per un’arte protesa oltre la pittura attraverso procedimenti che poggiano “unicamente sull’intensificazione dell’irritabilità delle facoltà dello spirito”. La riduzione della complessità tecnica sposta l’artista verso il ruolo di “spettatore”, di chi assiste alla nascita dell’opera astenendosi da qualsiasi partecipazione attiva e cosciente, in maniera che l’opera prenda la mano all’artista.
Nell’action-painting, di Shimamoto, nelle sue erotiche bordate di pittura contro la pittura stessa, il rituale del gesto serve a esorcizzare la realtà e a risalire all’origine organica e dinamica della vita. Sol-tanto il gesto dell’arte può attrarre nel proprio gorgo il movimento disperante dell’esistente che realizza così in tempi contratti e separati i paradisi totalizzanti e i cicli della propria umanità. Al di fuori dei momenti di globalità l’artista vive calato nella dimensione del quotidiano, senza riuscire a superare la separatezza tra uomo e uomo e tra l’uomo e le cose. Ma è compreso che la discontinuità dell’esistenza appartiene alle leggi strutturali che governano il mondo e che la cecità del caso compone e scompone ogni atto umano.
Il caos visibile delle cose riproduce fedelmente il movimento sotterraneo su cui corre l’ulteriore movimento dell’apparenza. Bi-sogna che l’artista accetti una vita permanentemente sbilanciata e aperta a tutti i flussi del possibile. Soltanto mediante questa ac-cettazione il gesto dell’arte può mettersi in sintonia con il movimento universale e cogliere epifanicamente grumi di vera e complessa esistenza. Lo scacco non parte da un sentimento frustrato, ma dalla consapevolezza che solo nel momento della creatività artistica si costituisce una sincronia effettiva con il mondo e i tempi del suo muoversi.
Lo spazio dell’azione pittorica non è chiuso soltanto nella tela, ma ingloba anche la distanza fluida di separazione tra la tela e il corpo dell’artista che, attraverso uno sbilanciamento permanente del proprio apparato motorio, realizza un collegamento effettivo con l’opera. Un collegamento sintomatico non soltanto per il risultato, ma specialmente per il procedimento posto in azione, tendente a proporsi come strategia di recupero e di liberazione di una vitalità globale dell’individuo.
Così la bidimensione racchiude una potenziale estroversione che è poi la proiezione di una attitudine dell’artista giapponese di uscire dalla ineluttabilità della sfera linguistica, per tentare il recupero diretto del dato esistenziale. E il recupero non avviene a livello della metafora, che ne costituisce ancora una sublimazione formale, ma attraverso un effettivo antagonismo con lo spazio del quotidiano, violentato mediante il gesto e letteralmente occupato.
L’intensificazione del gesto e l’azzeramento del livello simbolico sono le costanti operative della pittura di Shimamoto, predisposta in questo senso dalla propria antropologia culturale. L’accelerazione vitalistica ottenuta attraverso l’arte porta la pittura verso direzioni in cui non sono più possibili i distillati culturali della produzione simbolica. Ciò non significa arretramento culturale, bensì affermazione di un’arte che compete con la vita ma non per confondersi o perdersi con essa, quanto piuttosto per riconoscere un momento di vertigine accanto alla orizzontalità dell’esistenza.
Per questo Shimamoto realizza nel 1955 anche opere tridimensionali, come la passerella di sei metri squilibrata nei due lati ed instabile per il pubblico, per significare la precarietà del quotidiano e l’indispensabile concentrazione per viverlo, ripresa dentro i giardini della Biennale del 1993.
Il rapporto tra Oriente e Occidente trova così una articolazione e una coniugazione che permette esiti assolutamente originali quanto a intensità e a intenzionalità. In entrambi i casi l’arte viene praticata come rappresentazione totale, come iniziazione di una vertigine progressiva che trova nel processo creativo il suo momento di verifica e di completa accensione.
La materia dell’arte trova nel furor di questa generazione di artisti, pur appartenenti a diversi contesti, l’indispensabile linfa di cui alimentarsi. Trova nella rifondazione dell’atto creativo la possibilità di poter riprendere la pratica ascensionale di un gesto totale.
Una intenzionale sensibilità li connota, frutto di una poetica collettiva che vuole rifondare la totalità della vita, impedita dalla parzialità dell’esperienza quotidiana. In particolare Shimamoto assume la posizione naturale del Samurai della pittura, di chi pratica le arti marziali nei confronti dell’atto creativo. Una incessante performance di azioni che mettono in scena vitalismo e disciplina. Il tentativo è quello di allargare il più possibile lo spazio estetico del gesto, inglobare la terra ed il cielo.
Così Shimamoto ha realizzato il 9 maggio 2008 una performance nella Certosa di San Giacomo a Capri, bombardando con bottiglie di colore una grande tela al suolo, con l’assistenza culturale e tecnica della Fondazione Morra e dell’Archivio Pari&Dispari di Rosanna Chiessi. Ora l’evento si è trasformato nella stabilità della pittura con la presentazione di venti opere che ne costituiscono memoria e durata. Dimostrazione di come la pittura diventi il campo di sosta estatica del gesto creativo e produca la durata dell’azione.
In definitiva la pittura nell’opera di Shimamoto è la durata dell’azione, la cattura della dimensione temporale che si vaporizza e pervade il recinto spaziale entro cui si forma l’opera nel suo dinamismo processuale. Lo spettatore viene in tal modo direttamente implicato, attivo testimone dell’evento, nel movimento eccellente della creazione.
Achille Bonito Oliva