L’arte del passato ormai ci appare come un inganno ricoperto d’apparenze con pretese di significato. Facciamola finita coi mucchi di simulacri che ingombrano gli altari, i palazzi, le sale e i locali dei rigattieri. Si tratta di fantasmi fraudolenti che hanno assunto le apparenze di altre materie attraverso la magia di materiali coloranti, tele, terre, metalli, marmi cui l’uomo assegna un ruolo insensato. Così occultata da produzioni spirituali la materia, completamente massacrata, non ha diritto di parola. Tutti questi cadaveri gettiamoli alle loro fosse. L’arte Gutai non trasforma la materia. L’arte Gutai da vita alla materia. Nell’arte Gutai, lo spirito dell’uomo e la materia si stringono la mano. La materia non viene assoggettata dallo spirito. Lo spirito non forza la materia, non la subordina a sé. La materia rimane tale e, quando viene sollecitata, rivela le sue proprietà, comincia a raccontare la sua storia, a gridarla perfino. Infondere vita piena nella materia è un modo di infondere spirito nella vita. L’elevazione dello spirito fa sì che la materia stessa venga introdotta in uno spazio altamente creativo. L’arte è il dominio della creatività. Eppure nel passato non è dato di trovare esempi di creazione della materia per mezzo dello spirito. In ogni epoca lo spirito umano ha dato vita a una produzione artistica che non resiste ai mutamenti. Oggi le grandi opere cui diede vita il Rinascimento non sono altro che reperti archeologici. Solo, forse, le espressioni artistiche primitive e l’arte incominciata con l’Impressionismo, riuscendo a conservare una sensazione di vita senza troppo tradire la materia, possono oggi incontrare il nostro gusto: o forse l’arte di movimenti quali il pointillisme e il fauvisme che non osavano sacrificare la materia, benché asservita alla rappresentazione della natura. Tuttavia si tratta di opere che appartengono al passato, incapaci di commuoverci. Oggi può interessarci e coinvolgerci solo la bellezza contemporanea percepita nelle alterazioni causate dall’oltraggio del tempo che passa inesorabile su oggetti d’arte e monumenti. Ciò sembrerà apprezzamento di un bello decadente, ma è un modo di godere della bellezza della materia originaria rivelatasi al di là degli artifici di cui la si è travestita. Quando ci lasciamo sedurre dalle rovine forse cediamo proprio alla rivincita delle loro fessure, delle loro crepe sul sopruso subito dai materiali d’origine. È in tale ottica che noi nutriamo profondo rispetto per Pollock e Mathieu, perché le loro opere rappresentano le grida emesse dalle materie coloranti. Il loro lavoro consiste nel confondersi con la materia secondo un procedimento particolare che dipende dalla disposizione personale. Essi sono al servizio della materia, tutt’uno con essa.
Di recente ci siamo molto interessati, tramite le notizie forniteci da Hisao Domoto e Soichi Tominaga, dell’attività di Mathieu e di altri autori dell’Arte informale. Ne condividiamo le opinioni essenziali pur senza conoscerne i dettagli. Esse coincidono sbalorditivamente con le nostre idee circa la scoperta di forme interamente nuove che nulla debbano a forme preesistenti. Ma non ci appare chiaro se, nell’ambito delle possibili ricerche, le componenti formali e concettuali dell’arte astratta, quali colore, linea, forma ecc., siano intese in qualche relazione con la specificità della materia. Non sappiamo troppo a proposito della loro negazione dell’astrazione.
Ma per quanto ci riguarda, sia quel che sia, l’arte astratta ha perso ogni fascino, tant’è che al momento della formazione del gruppo abbiamo scelto come nostra denominazione il termine Gutai (concretezza). Soprattutto desideriamo aprirci verso l’esterno, in contrapposizione alla forza centripeta dell’astrazione.
Al momento della fondazione del gruppo pensavamo, come tuttora pensiamo, che l’eredità più preziosa dell’astrazione sia il fatto di non limitare l’arte alla semplice rappresentazione, aprendo nuove possibilità di creare spazi autonomi maggiormente creativi.
Abbiamo deciso di consacrarci alla ricerca delle possibilità di una creazione artistica pura. Per donare concretezza a questo spazio di tipo astrazionista abbiamo tentato di creare una sorta di complicità fra la disposizione personale e le doti dell’artista e la specificità della materia.
Ci ha sorpreso come fosse possibile dare vita a uno spazio finora sconosciuto, una specie di crogiolo di automatismi in cui doti umane e materiali si fondessero. L’automatismo trasmette inevitabilmente l’immagine dell’autore. Contiamo molto su metodi personali di creazione. Prendiamo come esempio Toshiko Kinoshita, un membro del nostro gruppo. Ella non è altro che una professoressa di chimica in un istituto scolastico femminile, ma sa dar vita a uno spazio molto inusuale facendo depositare delle sostanze chimiche su un filtro di carta. Poiché la reazione chimica non avviene immediatamente bisogna attendere il giorno seguente per avere un risultato preciso e ben delineato. È stata lei ad accorgersi di quali forme bizzarre poteva assumere il composto. Magari dopo Pollock possono esserci stati migliaia e migliaia d’altri che hanno adottato i suoi metodi senza che ciò sminuisca le sue scoperte artistiche. Kazuo Shiraga ammassa della pittura su un enorme foglio di carta per poi spargerlo violentemente con i piedi. Questo nuovo procedimento ha attirato l’attenzione dei giornalisti, che hanno parlato di “arte corporale”. L’autore non voleva fare del suo modo di esprimersi quello che è stato inteso come una spettacolare esibizione, ma solo realizzare la sintesi di cui parlavamo fra il particolare materiale scelto in funzione del suo carattere del suo stato d’animo. Diversamente dal metodo organico di Shiraga, Shozo Shimamoto ricerca manipolazioni più meccaniche. Rompendo flaconi di vetro pieni di pittura ottiene dipinti risultanti dai getti e dagli schizzi che ne derivano, o ancora usa una specie di cannone in miniatura caricato di colore che fa esplodere ricorrendo all’acetilene. Quei colori che si spandono in un baleno sulla tela danno forme di una freschezza mozzafiato.
Poi c’è Yasuo Sumi che adopera un vibratore nelle sue creazioni, mentre le opere di Toshio Yoshida sono costituite da un unico ammasso di pittura. Si tratta sempre di esperimenti artistici intrapresi in tutta serietà, ovviamente.
In questa ricerca di rinnovamento altre opere hanno assunto forma di oggetti. Questo processo di diversificazione è stato senza dubbio stimolato dalle condizioni ambientali delle esposizioni all’aria aperta che ogni anno teniamo ad Ashiya. Ci sono opere che combinano diversi materiali, ma non bisogna confonderle con gli oggetti surrealisti in quanto, contrariamente a questi ultimi, si tratta di opere che evitano di porre l’accento sul titolo e sul significato del prodotto artistico. Fra gli oggetti d’arte Gutai vi sono i fogli di metallo colorati di Atsuko Tanaka e la struttura di vinile rosso somigliante a una zanzariera di Tsuruko Yamazaki.
Si tratta comunque di tentativi diretti a specificità materiali, cromatiche e formali. Noi costituiamo un’associazione, ma ciò non significa che esista una qualche forma di controllo. Siamo aperti a ogni sorta di esperienze, arti corporali, arti tattili, anche musicali (da anni Shozo Shimamoto ha realizzato opere sperimentali degne d’interesse). L’opera di Shozo Shimamoto, che da l’impressione di passeggiare su un ponte collassato, quella di Saburo Murakami che evoca la visione di uno spazio celeste scrutato dal corpo del visitatore divenuto telescopio, l’elasticità organica dei grandi sacchi di vinile di Akira Kanayama, il “vestito” fatto di lampadine intermittenti di Atsuko Tanaka, o ancora le forme in acqua o in fumo di Sadamasa Motonaga.
L’arte Gutai gradisce estremamente tutti i passi compiuti audacemente verso l’ignoto. A prima vista ci si potrebbe confondere col Dadaismo i cui meriti noi riconosciamo pur ritenendoci molto differenti. La nostra fede è tutta rivolta alla ricerca di nuove possibilità. Le esposizioni d’arte Gutai sono sempre animate da una grande vivacità intellettuale. Ci auguriamo che le nuove scoperte della vita della materia continuino a emettere grida altisonanti. (In “Geijutsu shincho”, dicembre 1956)
Jiro Yoshihara
La III Esposizione d’arte Gutai
La III Esposizione d’arte Gutai si è inaugurata a Kyoto.
Essa offre molti spunti interessanti.
Akira Kanayama ha presentato una serie di opere inusuali, percorse da grovigli di infiniti filamenti. Anche con l’ausilio degli automatismi, Kanayama avrà probabilmente voluto esprimere un certo numero di tensioni e passioni interne. Certo dalle sue creazioni esala una sensazione tremendamente fredda. E doveva pur essere quanto voleva ottenere, visto e considerato che ha fatto dipingere tutto da macchine. Conoscete quelle automobiline giocattolo che a un tratto cambiano direzione girando su sé stesse? Kanayama le ha adocchiate in un grande magazzino, ne ha comprate un certo numero, e ha provato ad attaccarvi una boccetta di inchiostro a essiccamento rapido. I cambi di direzione meccanici provocano variazioni inaspettate. Fra i molti esperimenti Kanayama si è fatto anche costruire meccanismi di scala maggiore e li ha fatti muovere in scie di pittura.
Il risultato sono le opere realizzate, alcune di enormi dimensioni.
Si tratta di dipinti in cui l’autore è letteralmente assente. L’artista può anche farsi un sonnellino: finché durano le batterie gli oggetti automatici continueranno a muoversi e piroettare tracciando linee sulla tela stesa su una tavola. Non sono necessariamente linee dal tracciato regolare perché anche seguendo regole meccaniche hanno infinite variazioni.
È probabilmente come in natura. L’artista da il via come un dio creatore e quando gli sembra che l’opera sia giunta al punto giusto annuisce e ferma il meccanismo. Jackson Pollock non faceva ricorso al caso. Eppure io credo si possa riconoscere in lui un certo rispetto per il caso. Il suo automatismo non ha precedenti nella storia delle belle arti. I suoi quadri sembrerebbero poterli fare chiunque. Solo che è stato egli stesso a brevettare un metodo aperto a tutti. Sopra un metodo alla portata di tutti brilla l’occhio di colui che lo ha creato: l’artista, l’individuo che a nessuno è dato imitare. Kanayama ha spinto in avanti la strada aperta da Pollock. È meraviglioso che i meccanismi da lui sviluppati diano quei quadri.
Le opere di Shozo Shimamoto si possono dividere in due gruppi. Uno è quello delle sue creazioni cosiddette a scoppio, l’altro quello di opere costituite da buchi nella latta. Le sue opere a scoppio sono ottenute sparando della lacca infilata nell’estremità di un tubo di ferro per mezzo di un’esplosione di acetilene. Egli da forma a un sacco di creazioni in pochissimo tempo con questo metodo che fa appello a una rimarchevole violenza. In qualche punto appiccica delle robe indescrivibili tipo residui di fermentati e, sdrucita un poco la tela, lascia che i colori vi scorrano facendo il resto a modo loro.
Anche questa è una ricerca in sommo grado della casualità. Le mani dell’autore non dipingono la benché minima parte dell’opera. Come per Kanayama, si tratta di creazioni dipinte da volontà meccaniche. In cosa diverge la sostanza della creatività dei due artisti? Nell’esistenza degli stessi autori! Le opere costituite da buchi aperti in superfici di latta hanno qualcosa che le accomuna a quelle di Fontana, l’artista italiano. Eppure sono estremamente diverse: mentre quelle di Fontana possono al limite darsi qualche aria di raffinatezza, quelle di Shimamoto sono indicibilmente rozze. Yasuo Sumi è progredito nella sua opera in direzione analoga, quasi mirando al brutto. È un po’ preoccupante che l’oscenità ricercata sia troppo simile a quella prodotta da Shimamoto, ma col tempo e l’attenzione necessaria le due cose dovrebbero riuscire a divergere. Sumi è un artista la cui crescita lascia ben sperare.
Saburo Murakami quest’anno è passato dalle opere in carta stracciata alla creazione di quadri dalla pittura screpolata. Ha provocato di proposito le crepe, con grande abilità. Un dipinto di enormi dimensioni con i suoi colori incrinati costituisce un oggetto impressionante. Non esiste altra arte del genere. Dobbiamo ben custodirla. Kazuo Shiraga ha presentato cinque oli dipinti con i piedi. Si tratta di opere che ha ottenuto ridipingendo una seconda volta su un primo strato per aggiungervi un senso di spessore. Egli ha espresso in tale stratificazione un’idea di pienezza interiore. Tsuruko Yamazaki si cimenta tenacemente con superfici di ferro bronzate. Quest’anno, rese più complesse le loro zigrinature, vi ha aggiunto anche un’illuminazione colorata (ne ha girato una pellicola cinematografica). I cosiddetti abiti teatrali con luci intermittenti ideati da Atsuko Tanaka creano un’atmosfera misteriosa esposti in una sala a parte assieme alle creazioni inondate di luce di Yamazaki. Le forme di una semplicità estrema dei colori a olio di Sadamasa Motonaga, assieme agli automatismi di spruzzi neri e bianchi di Toshio Yoshida, comunicano un sapore di natura tutta giapponese.
(In bollettino “Gutai”, Osaka, 15 luglio 1957)