L’Esperienza Artistica quale Esperienza Poetica del Pensare – Romano Gasparotti

1 L’arte come globalizzazione degli incontri

Il primi quadri di S.Shimamoto – inaugurati, nel 1946,  da Hole Showa 21 – si intitolano Hole, parola che significa: foro, apertura, breccia. L’insistenza sui “buchi”  precede, accompagna e segue(almeno sino alle Carte del 1985) l’atto di  fondazione, avvenuto nel 1954 a Hosaka,  del gruppo GUTAI, il cui nome “concretezza” pare sia stato suggerito a Jiro Yoshihara proprio da Shimamoto. Il Manifesto Gutai del 1956,  mimando lo stile degli analoghi manifesti delle avanguardie storiche occidentali del primo ‘900, annunciava tra l’altro:

Con la nostra presente consapevolezza, le arti che abbiamo conosciuto ci appaiono ora false e colme di tremenda finzione. Vogliamo allontanarci da questi oggetti di cui altari, palazzi, saloni e negozi antichi sono pieni. Questi oggetti sono sotto mentite spoglie e i loro materiali come la pittura, pezzi di stoffa, metalli, pietra e marmo sono ricolmi di falsi significati dati dalle mani umane e invece di presentarsi con i loro materiali, prendono l’apparenza di altro. Sotto le spoglie di uno scopo intellettuale, i materiali sono stati completamente uccisi e non possono più comunicarci nulla. Chiudete questi resti nelle loro tombe. L’arte Gutai non cambia i materiali ma li porta in vita.(…)Qualche volta, erroneamente e a prima vista, ci possono comparare al Dadaismo, e noi stessi riconosciamo interamente le conquiste dadaiste. Ma noi pensiamo differentemente, in contrasto con il Dadaismo, i nostri lavori sono il risultato di una ricerca di possibilità per portare il materiale in vita. Speriamo sempre che le nostre esibizioni Gutai abbiano sempre uno spirito fresco e che la scoperta di nuova vita aiuterà i materiali a risorgere.

In questo  e in altri testi programmatici pubblicati sulla rivista Gutai, il gruppo sente il bisogno di rimarcare  la profonda diversità del proprio modo di dipingere in primis rispetto al pointillisme e al fauvismo, ma anche nei confronti della lezione di maestri occidentali quali Leonardo, Poussin, Rembrandt, Van Gogh, Utrillo e Dalì, nomi elencati secondo una prospettiva sul passato,  che non vuole essere affatto storico-cronologica, ma appare piuttosto di natura topologica(nel senso che ogni nome indica il “luogo” di una determinata uccisione della vita della materia attraverso la forma, il segno e il colore).

Del resto, il Canone buddista del Sutta Nipāta recita; “Contempla il mondo come vacuità(…), sempre restando rammemorante – così disse il Beato”. E la “rammemorazione” menzionata si riferisce alla “coproduzione condizionata” o “originazione dipendente” del “mondo come vacuità” stesso, nel quale gli eventi non scorrono su una linea crono-logica, né si lasciano precatturare dalla forma dell’identità/differenza, perché ogni figura eventuale, nella sua impermanente eternità, include –  mai definitivamente –   altre possibili figure, essendo, a sua volta, includibile in altre:

Ci vorrebbe l’infinito per contare/ tutti gli universi di Buddha./ In ogni granello di polvere di questi mondi/ sono innumerevoli mondi e Buddha[1]

Grazie all’interessamento di Michel Tapié – il grande critico francese noto per aver legato il suo nome alla stagione dell’Informale, recatosi in visita in Giappone nel 1957 – l’opera del gruppo Gutai cominciò ad entrare in contatto con i circuiti artistici europei e occidentali. In questa temperie, tra il 1958 e il 1968, Shimamoto riprende a cimentarsi con i “buchi”, nel ciclo di opere Esquisse Hole Series, dove l’azione del colore sfrega e consuma gli strati materico-cartacei del quadro sino a squarciarli o forarli. Un anno prima, l’artista aveva realizzato un esperimento, che fu definito di “concrete music”(poi acquisito dalla Collezione del Centre Pompidou di Parigi), sulla scia di quanto John Cage stava realizzando, previo lancio di dadi o monete, seguendo gli insegnamenti contenuti nell’ I Ching o Libro dei mutamenti e in stretto contatto con gli artisti newyorchesi dell’Artists’ Club sulla East Eight Street, tra i quali J. Pollock, F.Kline, M. Rothko e R.Rauschenberg.

Questa premessa per sottolineare come Shozo Shimamoto, prima di tutto, sia uno di quegli  artisti, i quali testimoniano, in modo eminente,  nella valenza etopoietica del  loro ergon – alla quale è appesa la possibilità di abitare diversamente il mondo a tutti comune  –  una forma di feconda mondializzazione della creatività, la quale è del tutto in controtendenza con gli scenari economico-politici e culturali della globalizzazione odierna. Quest’ultima ebbe inizio come estensione su scala planetaria dei modelli occidentali ormai ridottisi a pensiero unico e, al di là del meta-racconto e dei miti dai quali ne è stata accompagnata la propaganda, essa si è realizzata di fatto come moltiplicazione delle divisioni, delle opposizioni, dei dispositivi di esclusione e delle  procedure di “naturalizzazione” preventiva di ogni alterità eventuale[2]. La mondializzazione sub specie artis di cui Shimamoto è, invece, da più di sessant’anni,  infaticabile attivista in ogni angolo del globo, al di là di ogni astratto sincretismo o eclettismo, muove e va  nella direzione dell’autentico incontro. E ogni incontrarsi,  in senso forte, non si realizza certo – nonostante gli attuali scenari del mondo global – nell’esclusione preventiva, ma nemmeno  nell’assimilazione, né nella “naturalizzazione” ad ogni costo. Bensì accade realmente solo nell’erotico symballesthai di singolarità assolute – nella sospensione della forma anticipatoria e ricorsiva del differenziarsi – ognuna delle quali non può che danzare intorno e assieme all’altra, come nella “danza intorno all’Uno” di plotiniana e procliana memoria, in modo che l’armonia dei differenti rythmoi sia quella “invisibile( aphanés)” divinamente “più forte” di qualsiasi “armonia visibile”(Eraclito fr. 54).

Un tale habitus etopoietico[3] non può che accompagnarsi anche ad una radicale modificazione dell’orizzonte e dei modi di fruizione dell’evento artistico stesso. Se la poiesis dell’arte è ciò che violentemente interrompe qualsiasi genere di conversazione, come scrisse P.Celan, invece il “triplo gioco”[4] dell’arte contemporanea, quale parte fondamentale dell’universo della comunicazione globalizzata, tende a ripristinare costantemente e ovunque la macchina della conversazione, facendo di tutto per  “scongiurare l’interruzione comunicativa, ossia l’avvento dell’incomunicabile(…), l’avvento di ‘differenze assolute’”[5].

Ebbene, le azioni del gruppo Gutai e di Shimamoto, sin dall’inizio,  costringono, invece, gli spettatori ad un acrobatico esercizio  paragonabile a quello del balzare a “passi perduti” sopra gli intervalli irregolari tra i sassi affioranti di un torrente, come accade, in fondo, nella tradizione del Chanoyu, il rito della “cerimonia del tè”(che ha inizio percorrendo l’asimmetrico sentiero di pietre in rilievo del rōji, il giardino antistante la capanna del tè). A questo proposito, nella seconda esposizione collettiva “Gutai all’aperto” del 1956, presso il parco della città di Ashiya – in un esperimento che sembrerebbe anticipare sia la Land Art occidentale, sia la “situazione costruita” dell’Internazionale  situazionista, ma che, nel contempo, è anche tutt’altro, rinviando  immediatamente al Karesansui(l’arte di disporre pietre su un fondo di ghiaia) – Shimamoto presenta l’opera Please, walk on it, la quale invita i visitatori a salire e camminare precariamente su uno stretto  percorso irregolare di tavole pronte a cedere, ognuna in modo diverso, non appena il piede si posi su di esse…

2 Gutai is even Zen

L’arte del “samurai acrobata dello sguardo”(come fu definito da A.Bonito Oliva[6]) Shimamoto è indubbiamente influenzata dal pensiero zen, ma, nel contempo, non si lascia affatto catturare esclusivamente all’interno della dimensione di una mera declinazione o attualizzazione, in chiave contemporanea, dell’ arte zen. Se, nell’operare di Shimamoto, agisce l’originaria apertura allo spirito zen, essa viene ogni volta ricercata e riconquistata perdendola, attraverso il più radicale allontanamento rispetto alla tradizione. Del resto, dice il Libro del Lin Chi: “Se un uomo cerca Buddha, perderà Buddha; se cerca la Via perderà la Via”.

Le protratte esibizioni, azioni e performances che Shimamoto mise in atto a Napoli nella primavera-estate 2006, presso Palazzo dello Spagnuolo e l’Accademia di Belle Arti, promosse e organizzate dalla Fondazione Morra, avevano come titolo “Gutai is even Zen”. E i primi Holes dell’immediato dopoguerra, così come quelli del 1954 e le successive serie del ’58-’68 –  pur apparentemente analoghi ai buchi e ai tagli che, più o meno negli stessi anni, erano incorniciati da Fontana – vanno letti, in primo luogo, quali manifestazioni artistiche della pratica della “non ostruzione”, onde sperimentare la possibilità di abbandonarsi a  quel “mondo della vacuità” intimamente caratterizzato dall’assenza di chiusure(anattā)e dall’impermanenza(anicca). Inoltre, il maestro Yoshihara, prima di fondare il gruppo Gutai, aveva frequentato il movimento Bokujin-kai, che si proponeva di rinnovare l’antica arte della calligrafia e lo stesso Shimamoto era rimasto molto colpito ed influenzato dal calligrafo giapponese, vissuto a cavallo tra il XIX  e il XX secolo, Nantenbo, il quale, non solo lavorava molto più in grande rispetto ai calligrafi tradizionali, ma anche lasciava deliberatamente trapelare, nei suoi caratteri: “’nijimi: sfumature/sbavature’, ‘kasure: sbiadimenti’, ‘tobichiri: schizzi, spruzzi’ e ‘tare: sgocciolature’”[7]. L’arte della calligrafia – che si avvale della tecnica del sumie (letteralmente ‘inchiostro e acqua’) – ha sempre mantenuto l’indissolubile unità di scrittura e pittura, contrariamente a quanto avvenuto in occidente, dove le due pratiche, forse originariamente unite[8], sono poi andate nettamente divaricandosi. Per coltivare efficacemente le quattro virtù, che stanno alla base dell’arte tradizionale della calligrafia – ‘precisione’, ‘regolarità’, ‘coerente rotondità’ ed ‘energica elasticità’ – non bastano né la salda conoscenza della theoria illuminante la corrispondente téchne, né il pur assiduo esercizio, ma è necessaria un’intensa pratica di meditazione,  coinvolgente la totalità psicofisica dell’adepto artefice,  volta a fare il giusto vuoto(né un difetto, né un eccesso di vuoto), ossia a portare il vuoto – che non è mai altro rispetto al pieno – nel cuore del pieno stesso, in ciascun tratto e tra i tratti, in modo che il soffio spiritualvitale possa circolare liberamente. E’ interessante rilevare che questa ricerca del vuoto – il quale  non è affatto il nihil absolutum dell’ontologia occidentale[9] – secondo il buddismo zen, si può realizzare, nell’arte calligrafica,  solo attraverso la meditazione quale azione, ovvero – tradotto  nei termini occidentali –  attraverso una praxis piuttosto e prima ancora che una poiesis.[10] Sotto questo punto di vista, mentre l’occidente ha finito per assegnare l’arte all’ambito della poiesis, in oriente la pittura è e rimane, invece, in primo luogo praxis, nel senso di azione non ostruente.

3 Non esiste un colore senza materia

Come si è anticipato, non appena l’arte Gutai – nata per “andare oltre Mondrian”, secondo quanto proclamava Yoshihara –   entra in diretto contatto con le espressioni artistiche occidentali coeve, da un lato l’interpretazione di un critico come Michel Tapié tende a riportarla nell’alveo del materismo informale, mentre, dall’altro, sia Yoshihara che Shimamoto rimangono particolarmente colpiti dall’incontro con l’action painting di Jackson Pollock. Sono aspetti su cui vale la pena di interrogarsi.

Innanzitutto è evidente che la volontà di lasciarsi alle spalle la lezione di Mondrian non intende affatto negare l’aspirazione, propria dell’ascetica  ricerca dell’artista olandese, ad esprimere l’Uno-duità quale quiete-in-movimento[11] – ché, anzi, questo era proprio l’aspetto che inizialmente aveva fortemente attratto Yoshihara e gli altri membri di Gutai nell’occidentale Mondrian– ma concerne semmai la riduzione dell’arte a pura contemplazione dell’Idea, da parte del neoplasticismo inteso come “scuola”[12] impegnata nella prospettiva del mito neoplatonizzante del “Raffaello senza mani”. Emblematiche, a questo riguardo, le opere “napoletane” realizzate da Shimamoto e messe in scena nel 2008: Nike di Samotracia, Venere di Milo, Psiche di Capua, ma anche il Buddha semincorniciato, posato su una sedia sovrastante un cumulo di bicchieri di plastica usati e imbrattato di colori sbavati,  spruzzati, colati e sgocciolati.

Quanto alla relazione con l’Informale materico – costruita da M.Tapié, ma evidentemente confortata da opere come la serie di Untitled del 1960(gesso e materiali misti su tela) –  va innanzitutto rilevato che mentre Shimamoto prestava particolare attenzione all’espressione artistica dei bambini, in Francia, il “materiologo”[13] J. Dubuffet, sin dal 1922, si era interessato all’espressione dei cosiddetti “alienati”, dei malati mentali ed era rimasto particolarmente colpito da un libro pubblicato nel 1922 in Germania, da un medico psichiatra, il dott. Hans Prinzhorn, col titolo Bildnerei der Geisteskranken[14]. Ciò che tanto Dubuffet quanto Shimamoto ricercavano nell’arte dei folli e degli infanti era: a) un’espressività non ancora condizionata da schemi culturali e forme prestabilite; b) l’attenzione olistica al mondo inteso come un tutto indiviso, in antitesi, quindi, con l’atteggiamento iper-analitico proprio della mentalità scientistica portata, invece, a separare, dividere, anatomizzare. A questo proposito Dubuffet, nella conferenza Anticultural Positions tenuta a Chicago nel dicembre 1951,  sosteneva:

Quando voglio osservare molto bene qualcosa, la mia predisposizione mi porta a guardarla insieme al suo contesto, come un tutto.(…) Se c’è un albero nella campagna non lo porto nel mio laboratorio per osservarlo al microscopio, perché penso che il vento che soffia attraverso le sue foglie sia necessario per la conoscenza dell’albero e non può essere da esso separato.[15]

Gli esordi come critico d’arte di Michel Tapié(ex pittore e scultore neodadaista), avvennero proprio con la cura del catalogo della seconda mostra tenuta da Dubuffet, presso la Galleria Drouin di Parigi, nel 1946, dove il neocritico scrive che Dubuffet ha intrapreso una ricerca:  “in cui la materia ha preso il sopravvento sul colore, (…) colore che non esiste se non in quanto la materia lo richiede(…); cioè al problema del colore si è sostituito il problema della materia”[16].

Se apriamo il numero della rivista Gutai del 1 aprile 1957, vi possiamo leggere un illuminante testo firmato da Shimamoto dal titolo For the Banishment of the Paintbrush, dove, tra l’altro,  si dice:

(…)come una linea senza spessore non esiste, un colore senza materia non si concretizza(…)Per quanto l’artista si prodighi a profondere il proprio genio spirituale con il pennello, tentando di rimuovere la materialità della colorazione, in ogni tela la sostanza che le dà colore rimane riconoscibile.(…)L’ho già detto: un colore senza materia non esiste.(…)

A sua volta Dubuffet, nel Prospectus aux amateurs de tout genre, aveva scritto:

Non esistono colori, ma soltanto materie colorate(…).Un raso nero, un panno nero, una macchia di inchiostro nero su una carta, una vernice nera su delle scarpe, la fuliggine nera di un camino, il catrame(…). Nero non è che un’astrazione; il nero non esiste; ci sono materie nere(…)[17]

Per l’artista francese, la pittura può esercitare la sua perenne e inestinguibile ricerca sulla   “materia vivente”, attraverso la sperimentazione di ogni materiale (al di là di qualsiasi presunta gerarchia, tra materiali “pittorici” e “non pittorici”), nel senso di una avventura infinita – “cominciare un quadro: un’avventura che vi condurrà dove? Non si sa…”[18] – che non si acquieta mai in un risultato, ma che, come in una danza, rimbalza indietro, nel suo proiettarsi contemporaneamente in avanti, sempre in volo, lasciandosi  andare al fluire dei suoi  ritmi:

Il punto di partenza è la superficie da animare – tela o foglio di carta – e la prima macchia di colore o di inchiostro che vi si getta:l’effetto che si produce, l’avventura che ne risulta. E’ questa macchia, a mano a mano che la si arricchisce e la si orienta, che deve guidare il lavoro.[19]

Per  Dubuffet – artista occidentale che contestava il pensiero unico dell’ “asfissiante cultura”[20] dell’ occidente – dipingere è l’inizio di un’avventura senza fine, che, nel suo aver a che fare con il mistero della materia, manifesta, nel suo ergon, una vera e propria esperienza poetica dell’arte, che coincide con un’originaria esperienza poetica del pensare tout court. Per la tradizione culturale di noi occidentali, la poiesis è “ogni causa(aitía) che conduce dal non essente all’essente”, secondo la celebre definizione platonica del Simposio (205b, 8-9). E nel Sofista, lo stesso Platone scrive: “allorché qualcuno conduca all’esistenza(eis oysían) ciò che prima non era, diciamo che produce(poiein) nella misura in cui trae fuori e che è prodotto(poieisthai) nella misura in cui è tratto fuori”(Sofista, 205b, 4-6). La poiesis indica, pertanto, l’evento sorgivo dell’apparire di ciò che, attraverso una certa “causa”, viene portato all’esistere a partire dal suo originario nascondimento. La filosofia occidentale dell’arte e la moderna estetizzazione dell’opera artistica, tuttora dominante nel mondo detto globale,  si sono astrattamente concentrate sull’ipostatizzazione del risultato del produrre, potremmo dire sul suo escrementum(nell’accezione letterale del termine) e ciò spesso è avvenuto malgrado l’arte stessa e il fare pensante degli artisti. Dubuffet e gli artisti “materici” – non limitandosi affatto a testimoniare una mera “volontà di regressione”, come è stato sostenuto dalla critica più miope –  intendono, invece, sperimentare sino in fondo il contraccolpo di una via palintropos(per usare ancora un’espressione eraclitea), ossia  tale che nell’andare avanti verso la forma – e non potendo la poiesis che procedere, formando, dal nascosto al non più nascosto – nel contempo, in uno, rifluisca sempre indietro verso l’invisibile sfondo abissale di ciò che viene prima dell’inizio di ogni forma, che Platone aveva denominato col nome “bastardo” di chora. La cosa determinatamente formata, che in ciò si rende visibile – l’opera –  diviene, perciò, figura del ri-velarsi della pura possibilità del vuoto della materia stessa: “vacuità della vacuità”, si potrebbe dire nei termini taoisti e buddisti dell’oriente. Insomma, se è vero che, per la tradizione occidentale, ogni poiesis non può che avvenire come un dar forma e non può che “terminare”,  quindi,  nel disvelarsi di un ente che è materia formata, l’intento  dell’artista materico è quello  di sforzarsi di  cercare la forma della stessa  pura materia – prima che essa venga avvolta dalla forma formante(eidos kai morphé) – nella consapevolezza che, comunque,  nessun’ opera potrebbe ottenere ciò come risultato. Ricordiamo che la chora platonica “non va detta né terra, né aria, né fuoco, né acqua”(Platone, Timeo, 51a); è indeterminata(aoristos), invisibile(anoraton) e amorfa(amorphon)e tuttavia è anche “una certa qual forma(eidos  ti)”(ivi), che, però, sta “fuori(ektòs) di ogni forma”(ivi) e non ha nulla a che fare con le idee rispetto alle quali, tuttavia, è coeterna. Perciò, lo sforzo di collocarsi sull’orlo dell’ineffabile permanente impermanenza propria della materia-chora – sfondo  caratterizzato dall’infinita autometamorfosi –  cui aspira la ricerca informalmaterica, non può, alla fine, che far risaltare il primato del ricercare incorporato nel gesto artistico. Non, però, sino al punto di ipostatizzarlo e svilire o negare  ciò che, di volta in volta, viene a prodursi quale opera operata. Quest’ultima, invero, pur nella sua intrinseca perfectio, non realizza mai, come entelécheia, il risultato della  ricerca, la sua verità, ma porta dentro di sé l’alone di un’indelebile negatività, la quale, ben  lungi dall’indicare una mancanza o una privazione, è segnale e annuncio del fatto che l’avventura della ricerca continua, verso altre impermanenti perfezioni perfettibili[21]. In ogni caso un contraccolpo, di nuovo un movimento palintropos, impedisce alla poiesis di divaricarsi e di rendersi autonoma nei confronti della praxis, a cui è originariamente e resta intimamente congiunta.

Come aveva brillantemente intuito M.Tapié, l’arte Gutai, pur a partire da matrici teoriche del tutto  differenti, tende verso un’esperienza analoga. Cosa significa, infatti – com’è scritto nel primo manifesto Gutai – che  oggetti “come la pittura, pezzi di stoffa, metalli, pietra e marmo sono ricolmi di falsi significati dati dalle mani umane e invece di presentarsi con i loro materiali, prendono l’apparenza di altro”? E in che senso, a causa “di uno scopo intellettuale, i materiali sono stati completamente uccisi e non possono più comunicarci nulla.”? La cultura occidentale, talvolta con la complicità dell’arte, considera i materiali esclusivamente nell’utilizzabilità prestabilita dalla loro forma. Da un lato essi sono assunti nella determinata forma rigida e cristallizzata, che la téchne ha impresso loro e dall’altro, quali enti così formati, si offrono nella loro piena e totale disponibilità ad essere manipolati, in vista del soddisfacimento dei bisogni umani. E ciò che, in tal modo, esiste solo per essere prodotto, manipolato, consumato, distrutto, è, come insegna Aristotele, “materia formata”, come tale installatasi nella sua determinata identità, in modo tale da respingere ed escludere da sé ogni altro ente diversamente determinato (sempre secondo la forma). E’ così che la concezione “intellettualistica” della Tecnica finisce per soffocare e uccidere i materiali! Ed ecco, allora, perché l’arte non rivoluzionaria, bensì  “concreta” di Gutai si propone non già di “cambiare i materiali”, bensì di “riportarli in vita”, a partire di una pratica, per la quale la forma(rūpa)( grosso modo l’equivalente del greco morphé) è vacuità:“la forma è vacuità e proprio la vacuità è forma”, come recita il Sūtra del Cuore. Nel senso che la forma, lungi dall’essere l’aristotelico principio di determinazione che fa sì che ogni materiale assuma e mantenga la propria identità  nella misura in cui esclude e respinge da sé ogni altra “materia formata” –  è, invece, ciò che manifesta identicamente in ogni materiale il suo essere sé stesso, nella sua determinata configurazione, solo in quanto immerso nella reciprocità “porosa”[22] con tutti gli altri. Il che  può risvegliare l’esperienza del mistero di quel “mondo della vacuità”, nel quale ogni realtà è evento e in cui l’energia produttrice dell’arte non si esaurisce affatto nel suo dar luogo ad opere quali forme materiali autonome e indipendenti nella loro determinata autoconsistenza. E il pennello è lo strumento principe di tale asservimento della vita dei materiali alla rigida, indipendente e chiusa identità conferita dalla forma e quindi della  destinazione unica dei simulacri  così ottenuti all’utilizzabilità e al dominio dell’umana volontà di potenza.

Il profondo interesse manifestato dal gruppo Gutai per l’action painting – confortato  dalla riscoperta degli schizzi, spruzzi e delle sgocciolature della calligrafia di Nantenbo – si spiega alla luce di tale prospettiva. Pollock è l’artista occidentale contemporaneo che, per primo, nel curvare la poiesis tecnica verso l’azione e il gesto, cerca di “liberare il colore dal pennello”, come scrive Shimamoto, dal momento che il “pennello attivo” finisce per “strumentalizzare completamente il colore materiale, assoggettandolo all’intento narrativo”.  In vista dei medesimi scopi, gli artisti Gutai, ricorda lo stesso Shimamoto, usano di tutto: “annaffiatoi, ombrelli, vibratori, pallottolieri, pattini,giocattoli. E poi ancora i piedi, o le armi da fuoco, o altro. E in tutto ciò potrebbe anche ricomparire il pennello(…) non più(…) per umiliare e uccidere le qualità delle materie coloranti, bensì per renderle ancora più vive”.

4 Arte e violenza

I Bottle crashes, sperimentati da Shimamoto sin dai primi anni ’50 e poi intensificati in modo sempre più teatrale[23], – memorabili quelli veneziani presso il Chiostro di San Nicolò del 2007 e la performance di Punta Campanella a Napoli dell’anno successivo –  esprime una forte carica di violenza, anche quando diventa Un’arma per la pace come nell’opera del 2006 in Piazza Dante a Napoli.

L’arte occidentale è intrisa di violenza, anzi sembra che, in certi casi, non possa prescindere dalla violenza[24]. Solo per fare alcuni esempi, alla rinfusa: Caravaggio, nella tela Giuditta che decapita Oloferne, ci fa assistere, per così dire “in diretta”, al gesto di una cruenta decapitazione e, nel dipingere la Medusa sullo scudo circolare o rotella donata dal cardinale Del Monte al granduca di Toscana, restituisce la Gorgonide al suo essere testa, non volto, testa appena spiccata dal corpo, riattualizzando, davanti ai nostri occhi, il  gesto originario di violenza,  che, secondo il racconto mitico, portò a ciò. Di questa violenza restano le evidenti tracce del sangue versato che cola,  immediatamente sotto il viso, la cui bocca è spalancata in un urlo, il quale – anziché riprodurre l’ampia e orrenda fessura della Medusa mitica – sembra quasi anticipare quello di certe opere di Francis Bacon, il quale a proposito del quadro ad olio  Head VI(1949), dirà: “Ho voluto dipingere il grido, più che l’orrore”. In generale, come si è già ricordato, il poeta Paul Celan, in der Meridian[25] (da un discorso pronunciato nel 1960)afferma che, affinché si dia poesia, è necessario spezzare, e con violenza,  il continuum del discorso, facendovi  intervenire qualcosa che si imponga “brutalmente”, ir-rompendo e lacerando. E proprio nel ’60, per quanto riguarda il contemporaneo, hanno inizio le azioni cruente dell’ Orgien Mysterien Theater di Hermann Nitsch e degli altri protagonisti del  “Wiener Aktionismus”, cui seguono le performances dei primi anni ’70 di Chris Burden, di Claudio Cintoli, (che, in “Haqeldama, il campo del sangue” mette in scena l’eterno ciclo della nascita e della morte, attraverso un’azione basata sull’ostensione e lo scorrimento del  sangue mestruale), di Marina Abramovich(Art must be beautiful/Artist must be beautiful e lo sconvolgente Lips of Thomas),  sino agli esperimenti degli anni ’80 di Gina Pane, alle opere del pittore-fotografo Andres Serrano e alle ripetute e teratomorfiche “operazioni chirurgiche” di Orlan. Quanto al  campo musicale, un radicale innovatore come J.Cage dichiarò: “Vado verso la violenza invece che verso la tenerezza, verso l’inferno e non verso il paradiso, verso il brutto e non verso il bello, verso l’impuro invece del puro – perché, facendo ciò, queste cose vengano trasformate e anche noi veniamo trasformati”.[26] In tal guisa l’artista, quale esserci pensante, sembra farsi  tramite di  quella violenza di cui parla Nietzsche, in Umano, troppo umano, quando si riferisce ai filosofi come a quegli uomini “non saggi” e imprudenti, i quali sono, però, “educatori” in senso forte,  nella misura in cui arrecano violentemente  una ferita agli individui e alle comunità, in modo che “proprio in questo punto ferito e diventato debole, viene per così dire inoculato qualcosa di nuovo(…); la sua forza deve essere, però, in complesso abbastanza grande da accogliere nel sangue e assimilare questo che di  nuovo.”[27]  Lo stesso Kandinskij, nel 1912, sottolineava l’inseparabilità dell’arte dalla violenza, pur distinguendo tra la violenza esercitata opportunisticamente dal sedicente artista come mezzo rivolto esclusivamente verso “ fini materiali”[28], da una violenza sovrumana, che è  “rivelazione delle divine forze della Verità”[29]. In ciò, il testo di Kandinskij sembra anticipare quanto scritto nel ’21 da W.Benjiamin, nel saggio  Per una critica della violenza[30], dove si distingue la   violenza  pura e  divina dalla violenza impura e mitica.[31]

Che cosa fa l’artista allora? La violenza artisticamente presentata sulla scena di un drama non è la violenza che distruttivamente o sadicamente si volge contro la vita del vivente. Appunto perché ne è la mimesis da parte di un ypokrités, che è  insieme attore, mimo, sacerdote e interprete[32]. E’ l’uomo della Tecnica – colui che ragiona e calcola rigorosamente sulla base della razionalità mezzo-fine – ad essere convinto di potersi appropriare della violenza, per utilizzarla strumentalmente al fine di  realizzare i suoi fini umani, troppo umani. Mentre l’artista è quel mortale alla ricerca della verità, il quale,  sapendo  di non poter affatto  disporre della violenza – che, nella sua origine divina(come sottolinea Benjamin), è inappropriabile,  non   appartiene a nessun uomo, né è strumentalizzabile –  mette in scena,  sub specie artis,  il drama di una mimesis  cruenta e letteralmente ipocrita della violenza, come se volesse purgare, a scopi catartici e insieme apotropaici,  tutta la  violenza impura che insanguina il mondo, onde non ostruire i vuoti per l’eventuale irrompere della violenza divina capace di ricreare ogni volta – dissolvendo ogni fissazione e ogni stagnazione –  il senso del mondo.

Ebbene, le azioni dei bottle crashes di Shimamoto, col tempo sempre più teatralmente pittoriche[33], vengono ad incontrarsi, nella loro messa in scena,  con tali pratiche artistico-performative della violenza di provenienza occidentale, portando con sé la carica del sovrumano grido capace di produrre il “fiore meraviglioso”[34] e in cui prorompe la forza che travolge i significati già dati onde lasciar insorgere quelli possibili.

5 Evento ed opera

D – La sua attività artistica sembra caratterizzata da due elementi fortissimi, presenti fin dagli anni ’50: la produzione di “opere” e la creazione di eventi. Che rapporto c’è, nel suo lavoro, tra opera ed evento?

R – Una volta facevo delle opere che erano l’espressione di un violento lancio di bottiglie. Sia la televisione che i giornali venivano spesso a vedermi, ma non per pubblicare le opere così create, bensì lo scenario della loro produzione. All’inizio mi è capitato anche di arrabbiarmi quando constatavo che l’opera finale non veniva presentata, ma alla lunga ho cominciato a pensare diversamente(…). Per questo direi che la relazione tra opera ed evento mi è stata insegnata dai giornalisti.

La domanda posta e le parole di risposta, pronunciate dall’artista nel 2008, toccano il cuore della questione dell’esperienza poetica dell’arte quale esperienza poetica di pensiero, di cui Shimamoto si fa tramite e medium, in quanto uomo “alla ricerca della verità”(come egli stesso si definisce nella medesima intervista).

Shimamoto proviene da una tradizione, che non solo, come si è detto,  non conosce la divaricazione, alla radice delle forme del fare, tra la praxis e la poiesis – in modo che l’efficacia del produrre tecnico fa tutt’uno con la bontà intrinseca dell’azione –  ma per la quale non esiste nemmeno la differenza tra “cosa” ed evento. Al di là, dunque, dell’ironia della parte finale della risposta, è stato proprio l’incontro con l’arte occidentale a indurre Shimamoto a riflettere sulla relazione tra opera ed evento, laddove, però, parlare di “relazione”, per la mentalità occidentale,  implica presupporre una originaria e irriducibile differenza tra i due termini. E’ da rilevare che, nella tradizione europea culminante nell’estetizzazione moderna dell’arte, l’astratta riduzione ed identificazione dell’ergon  – che, nella lingua greca è vox media e significava unitariamente ‘lavoro’, tanto  nel senso di attività in atto, quanto in quello di prodotto di tale attività – va di pari passo con la tendenza a considerare l’opera d’arte come ciò che è solo occasione e oggetto di un pensare, che sta e si esercita altrove, fuori dell’arte e in primis nella filosofia dell’arte (al genitivo esclusivamente oggettivo), con la conseguenza che all’arte viene preclusa la possibilità di valere come autonoma e diretta manifestazione  di pensiero in atto(Thinking Art in questo senso).

Una rilevante parte delle correnti artistiche del ‘900(in particolare nella seconda metà del “secolo breve”) ha cercato di sottrarsi a questa “destituzione filosofica dell’arte”(per utilizzare un’espressione di A. Danto[35]), cercando di riportare quest’ultima alla sua natura di azione performativa. Per alcuni di questi  artisti,  ciò che resta dell’evento performativo e che viene conservato ed esposto in gallerie e musei non è che il documento, la traccia o letteralmente il “monumento”(da mneme, rimemorazione)dell’opera, ma non l’opera in quanto tale. E, in questa prospettiva, la posizione apparentemente più radicale dal punto di vista teorico, è stata quella assunta dall’Internazionale Situazionista, i cui documenti, assieme agli scritti di G.Debord,  annunciano la volontà  di far morire  l’opera d’arte, in quanto alienazione reificata della libera soggettività creatrice, nell’oggettività di un  determinato prodotto, il  quale, all’interno della società capitalistica, si riduce a pura merce. Da qui la necessità di sostituire l’arte, in quanto produttrice di reificazioni mercificate, con le “situazioni costruite”, ovvero con la progettazione e la realizzazione di concrete possibilità non permanenti di esperienze collettive, in cui  il libero flusso delle energie vitali e creative non si alieni mai più nella datità di un prodotto. Il limite intrinseco di queste risposte artistiche alla destituzione filosofica dell’arte, tuttavia,  sta – come emerge nella maniera più esplicita proprio nell’apparente radicalismo dei situazionisti – nel pretendere di emanciparsi dall’oggettivazione, reificazione e mercificazione dell’arte, applicando e rimanendo vincolati al logos profondo, che sta alla radice di una tale “alienazione” e che è momento essenziale della struttura originaria della tradizione culturale dell’occidente: la logica diairetica, oppositiva, escludente ed astratta fondata sull’aut…aut.    La questione, allora,  non si  risolve affatto all’interno dell’alternativa tra o (aut) l’arte quale pura azione, o (aut) quale oggetto, né nella sostituzione della(aut) reificazione dell’opera operata con (aut) la riappropriazione di un produrre non reificato e non reificante. Perché il problema non è quello di stabilire se l’arte stia di qua o di là: o dalla parte dell’evento o dalla parte della cosa. Se l’arte non va ridotta totalmente ed esclusivamente alla datità compiuta dell’opera operata, ciò non comporta affatto, per converso, la necessaria ricaduta in una sorta di mistica dell’azione.   Continuare a pensare e a fare sulla base di tale logica oppositiva della negazione astratta(aut … aut) – che è la stessa logica che ha condotto alla divaricazione occidentale tra la praxis e la poiesis e alla riduzione esclusiva dell’ergon al prodotto/risultato della téchne – comporta il seguitare a considerare l’arte, in un modo o nell’altro,  come mero oggetto di un pensare definitorio ad essa estrinseco, nella rinuncia preventiva ad incamminarsi sino in fondo sulla via della ricerca di cosa possa comportare il fatto che l’ergon  sia in quanto tale vivente atto di pensiero nel senso della Thinking art, ovvero di un’arte che non sia più mero oggetto pensabile/pensato di un pensare che si esercita in altra sede. Giacché qui sta  la vera e profonda alienazione dell’arte occidentale. L’operare di Shimamoto –  nell’incontro di oriente ed occidente in cui la sua ricerca della “verità in pittura” si decanta –   ci fa riflettere su ciò e ci sospinge in un’altra direzione. Sono stati sì i giornalisti occidentali ad aver insegnato all’artista giapponese “la relazione tra evento ed opera”!

In ogni  ricerca artistica della verità – come appunto mostra l’arte di Shimamoto –   non si tratta né di decidere tra evento ed opera, né di assolutizzare astrattamente l’opera compiutamente operata, né di privilegiare l’evento considerando la cosa/opera quale semplice traccia, documento, testimonianza, giacché, per un verso,  l’opera operata ha la stessa apertura(anattā) e impermanenza(anicca) dell’evento e, per l’altro,  l’azione performativa accade come una sorta di scrittura/pittura cosmica, il cui sfondo è l’universo stesso quale  “mondo della vacuità”. Nell’ergon di Shimamoto non già la differenza, bensì la piega tra le composizioni musicali e le sempre più spettacolari performances all’aperto e le tele, le sculture, i cartoncini degli anni ’70/’80, equivale al modo di dispiegarsi che si dà nello srotolamento/arrotolamento dei tradizionali dipinti cinesi e giapponesi, in cui avviene continuamente la “doppia nascita” dal vuoto e in uno la “doppia morte” nel vuoto. In modo che l’aletheyein, ovvero l’artistico far-verità di ciò che la lingua dell’occidente chiama poiesis  – come mimesis dell’uscire dal nascondimento per venire all’essere proprio della physis –  sia un uscire dal vuoto rientrante nel vuoto stesso, al di qua e al di là di ogni opposizione e di ogni relazione. Così il danzare acrobaticamente in una tale esperienza poetica del pensare riporta l’attenzione, da ultimo,  sulla scrittura panica, che tanto la poesia dell’arte – nel suo violento interrompere la continuità di ogni conversazione e comunicazione –  quanto la poesia della filosofia quale arte delle Muse[36] mettono in opera e sul rythmos del suo respiro, che violentemente infrange e sconvolge il prevedibile e ordinato scandirsi e strutturarsi di ogni possibile  kosmos  fatto di “pieni”. Musicale per eccellenza è tale esperienza poetica del pensare!

Al proposito, anche gli esperimenti musicali di Shimamoto sembrano maturare nell’incontro(nel senso forte indicato in apertura) dapprima con gli happenings multimediali di John Cage – il quale, a sua volta, si interessava, tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50, al buddismo zen – poi con la ricerca  di Fluxus e infine con  la trance music dello “sciamano”Charlemagne Palestine, del cui Strumming al pianoforte Shimamoto si è avvalso nella performance napoletana “Un’arma per la pace” del 2006. Ad un primo livello di interpretazione, l’espressione musicale agisce, nelle azioni teatralpittoriche di Shimamoto, come “differenza assoluta” accanto ad altre differenze assolute, in analogia con quanto avviene, negli happenings iniziati dalla metà degli anni ’40, tra la musica di John Cage, la danza di Merce Cunningham e l’action painting degli artisti newyorkesi di quel periodo. Ma, ad un ulteriore livello, più profondo, potremmo dire che la musica – intesa come musica vuota e concreta – esprima la quintessenza dell’acrobatica danza artistica di Shimamoto. Che tipo di musica? La musica quale manifestazione autoschediastica. L’aggettivo aytoschediastikés (αὐτοσχεδιαστικῆϚ) è usato da Aristotele nella Poetica(1449a, 10), laddove il filosofo rileva che l’azione teatrale tragica, ma anche la commedia, la poesia ditirambica e le cerimonie itifalliche, in origine potevano presentare una tale natura. Di solito la parola viene tradotta con “improvvisazione”, anche se  il suo tema è quello di un verbo, che significa letteralmente ‘produco da me qualcosa senza pre-disposizione’. Autoschediastico è, perciò, quel poiein il quale si realizza performativamente in una azione o in una esecuzione, che non è la mera estrinsecazione di qualcosa che è già stato compiutamente prefigurato, in un altro luogo e in un altro tempo, all’interno di una anticipazione ideal-progettuale e che, quindi, non accade come la più o meno  fedele ri-presentazione di una forma separata e anticipante. Ciò non significa affatto che tale rendersi visibile non abbia una forma e rifiuti ogni figura compositiva – ciò sarebbe impossibile –  bensì comporta che queste ultime non siano precostituite prima e a prescindere dall’azione performativa  stessa. Autoschediasticamente l’ ergon, perciò,  non è altro che l’evento che si mette in opera, il quale, però, pur restando in ciò un unicum, può benissimo essere diversamente rimesso i opera e  replicato tot volte in occasioni, luoghi e tempi differenti, in modo che sia tale peculiare e sempre diversa  eventualità a produrre la permanente impermanenza dell’opera. Nell’azione autoschediastica, l’evento del suo mettersi in opera, nel tempo reale del suo accadere,  differisce ogni volta  in sé da sé e  il persistere dell’opera nel tempo è indisgiungibile dall’irripetibilità del puro evento, che si mette in opera, ogni volta, per una volta sola. In tali manifestazioni autoschediastiche, le forme e le figure in un certo modo ogni volta rinascono e muoiono nella determinata opera operata, all’interno del concreto attuarsi della quale influenzano, in tempo reale,  gli sviluppi imprevedibili dell’esecuzione stessa. Si celebra così, nella sua radicale pienezza, quella che potremmo chiamare la festa dell’arte, ovvero il fatto che ogni determinata messa in opera, pur nella sua compiuta perfezione,  da un lato non è affatto la mera re-praesentatio di forme progettate e composte prima e altrove rispetto all’ hic et nunc della  loro presentazione e, dall’altro, contemporaneamente manifesta quell’intrinseca autonegatività dell’opera, la quale agisce tanto nel dispiegarsi della determinata messa in opera, quanto nel  suo costitutivo aprirsi verso ulteriori infuturamenti, nel continuo rilanciare l’avventura della ricerca.  A tali manifestazioni autoschediastiche spetta in senso eminente quella  pulchritudo vaga, che Kant, nella Critica del giudizio, aveva attribuito  alla musica,  in special modo  quando essa è “musica senza testo(Musik ohne Text)”[37] e si esprime per “fantasie senza tema(Phantasieen ohne Thema)”[38] (dove l’ohne, il “senza”, non è da intendersi nel senso della mera privazione-steresis, ma definisce comunque un’opera  non mancante di nulla).

In ciò l’ergon artistico quale mostrazione musaica(nel significato più profondo del termine), può esprimere al massimo grado quella “finalità senza scopo”, che, per l’occidente  kantiano, caratterizza l’arte libera e inutile e, per l’oriente buddista, ha il potere di scuotere e risvegliare noi abitatori del tempo esponendoci, senza più difese, all’impermanente permanenza del “mondo della vacuità”.

Romano Gasparotti
Venezia, ottobre 2010


[1] Testo buddista citato da G.Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 1992, p. 52. Scrive Pasqualotto: “La tesi buddista dell’impermanenza non sta a significare semplicemente che ‘tutto passa’:una volta che si intenda l’impermanenza alla luce dell’idea di vuoto, si è in grado di cogliere a fondo le ragioni dell’interconnessione delle partizioni temporali, nonché degli eventi che esse distinguono e classificano. In tal modo, nessuna partizione temporale rimane staccata dalle altre, né i vari eventi rimangono prigionieri della partizione temporale assegnata: si potrebbe allora arrivare a dire che, per il buddismo, ogni evento presente è eterno, non nel senso che dura in eterno, ma nel senso che è costituito dai fili di una rete infinita di cause ed effetti che lo legano agli eventi passati e a quelli futuri”(ivi, p. 57).

[2] Ce ne siamo criticamente occupati nel libro R.Gasparotti, I miti della globalizzazione. “Guerra preventiva” e logica delle immunità, Dedalo, Bari 2003.

[3] Il termine è desunto da Michel Foucault,cfr. Dits et Écrits 1954-1998, Paris, Gallimard 1994

[4] Cfr. N.Heinich, Le Triple Jeu de l’art contemporain. Sociologie des arts plastiques, Paris, Éditions de Minuit,1998

[5] M. Zanardi, “Arte al presente”, in Kainos, 10, 2010. In tal modo, la macchina comunicativa e la macchina politica – argomenta Zanardi nel suo acuto saggio – fanno di tutto “non per ‘reprimere’ l’evento, ma per anticiparlo, promuoverlo, controllarlo o neutralizzarlo attraverso la sua produzione programmata o collocazione in contesti che ne addomestichino l’apparizione”. Tali macchine implacabili “temono il pensiero che è all’opera nell’arte” e di conseguenza si concentrano nella promozione del nome, il quale “funziona da feticcio che distoglie dall’incontro con la ‘cosa’ dell’arte.”(ivi)

[6] A. Bonito Oliva, Shozo Shimamoto. Samurai, acrobata dello sguardo 1950-2008, Skira, Milano 2008. Si tratta del catalogo realizzato per la grande mostra dedicata all’artista giapponese tenutasi a Genova presso il Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce dal 13 novembre 2008 all’8 marzo 2009.

[7] L.Mango-A.Mardegan, “Intervista a Shozo Shimamoto”, in Shozo Shimamoto. Samurai, acrobata dello sguardo 1950-2008, a cura di A. Bonito Oliva, Op.cit., p. 137

[8] Vi è  un antico  frammento del già citato  Eraclito-  il   59DK – che un autorevole  interprete anglosassone, come G.S. Kirk, traduce con: ”La via degli scrittori è diritta e curva”, mentre Giorgio Colli, nel terzo volume de La sapienza greca, rende con:  “La via dei pittori è dritta e sinuosa”. La  parola greca che indica i “pittori” secondo una versione o gli “scrittori” secondo l’altra, è graphéon, che in greco rinvia al verbo grapho, la cui radice etimologica indogermanica è riconducibile a *gherph, radice in cui risuonano  i significati dell’ incidere, dell’ imprimere, del graffiare, tutte caratteristiche che originariamente competono  tanto alla decorazione pittorica quanto alla scrittura.

[9] Il vuoto, sia per il taoismo che per il buddismo zen, è, infatti, forma(rūpa)“Qui, o Sāriputra, la forma è vacuità e proprio la vacuità è forma”, recita il Sūtra del Cuore. Se proprio volessimo trovare un lontano equivalente occidentale di tale nozione di “forma”, dovremmo associarlo non all’ eidos, bensì alla morphé, che, nel pensiero greco, indica la forma non come principio logico del permanere dell’identità dell’ente determinato, ma come ciò che configura l’apparenza sensibile di esso.

[10] Vale la pena ricordare che, per il lessico teorico dell’occidente, come si desume dagli scritti etici di Aristotele, le forme del fare sono primariamente riconducibili agli archimodelli della praxis e della poesis, i quali differiscono nel loro scopo ed oggetto. Mentre la poiesis ha come scopo la produzione di una cosa, che è altra ed esterna rispetto al fare tecnico attraverso cui essa si realizza, nella praxis, invece, non c’è un fine esterno né un oggetto altro, dato che “il fine è la stessa bontà dell’azione”(Etica Nicomachea, VI, 6, 1140b, 6). Ed Aristotele fa l’esempio, quali uomini “pratici”, di Pericle, la cui azione politica si è sempre esercitata avendo come suo fine intrinseco il bene della polis ateniese, degli uomini e di sé stesso e del nocchiero, il cui ‘lavoro’ è quello di  preoccuparsi ed adoperarsi per  condurre bene in mare la nave che gli è stata affidata.     

[11] A questo proposito, il rinvio va a M.Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Milano 1985. Scrive Cacciari: “L’ars combinatoria di Mondrian non potrebbe trovare espressione più pregnante: quiete-in-movimento, Uno-duità. L’Immutabile, il cui richiamo martella i testi di Mondrian(letterari e pittorici) non si fissa,dunque, in una o nell’altra delle dimensioni che compongono l’equilibrio della quiete-in-movimento. L’Immutabile non è un perno fisso, un Asse inalterabile,che finisca col rendere quelle dimensioni staticamente simmetriche l’un l’altra, ma proprio il rapporto, il ritmico logos che, attraverso molteplici ordini, può collegarle, custodendole, insieme, nella loro differenza. Se ogni cosa esistente di per sé, in quanto chiusa esistenza immediata va abolita, deve sussistere, però, il ritmo che la molteplicità crea”(ivi, p. 246)

[12] W. De Kooning, nella conferenza  “Ciò che l’arte astratta significa per me”(pronunciata nel corso di un convegno tenutosi presso il Museum of Modern Art di New York, nel 1951),  afferma che, in seguito alla “svolta” operata dalle avanguardie storiche, vi fu chi, trascinato dall’ enfasi per la   ’pura forma’,   fece sì che: “quella parte di ‘nulla’ in un quadro, quella parte che non era dipinta, ma che esisteva proprio in ragione delle parti dipinte (…) venne generalizzato, nella mentalità da contabili di questi nuovi teorici, sotto forma di cerchi e quadrati”. Ciò avvenne perché tali profeti della deliberata astrazione “ ritenevano, in tutta innocenza, che quel ‘qualcosa’ di ineffabile, l’unica parte davvero rilevante del quadro, esistesse ‘nonostante’ e non ‘a causa’ degli oggetti dipinti. Se ne erano finalmente appropriati, a loro avviso, una volta per tutte. (…) Nel tentativo di rendere misurabile quel ‘qualcosa’, che per sua natura non lo era, lo perdettero: e così tutta quella vecchia terminologia, di cui intendevano sbarazzarsi, ricomparve nell’arte: ‘puro’, ‘supremo’, ‘equilibrio’, ‘sensibilità’ e così via.”( W. De Kooning, Appunti sull’arte, trad.it. Abscondita, Milano 2003,  pp. 26-27). Del resto, proprio negli stessi anni della sua “scoperta” del gruppo Gutai, Michel Tapié, a proposito del neoplasticismo scriveva:”Un movimento già abortito intorno al1910 e inumato verso il 1930, lo spazio di due stagioni(Abstraction-Création) e risorto di terza mano l’indomani della guerra(…) l’Avventura fortunatamente è altrove(…)”(M.Tapié, Mirobolus, Macadam et C.ie.Hautes Pâtes de Jean Dubuffet, Drouin, Paris 1946, trad.it. in E. Crispolti, L’Informale. Storia e poetica in Europa 1940-1951, vol.IV, Carucci, Assisi-Roma 1971)

[13] Tale denominazione si deve al libro di R.Barilli, Dubuffet materiologo, Alfa, Bologna 1962

[14] Cfr. H. Prinzhorn, L’arte dei folli. L’attività plastica dei malati mentali, trad.it. Mimesis, Milano 2004

[15] La versione francese del testo è stata inserita nel libro J.Dubuffet, Prospectus et tous écrits suivants, par H.Damisch, Gallimard, Paris1967, vol.I, pp. 94-100.

[16] M. Tapié, Op.cit.

[17] J. Dubuffet, Prospectus aux amateurs de tout genre, Paris 1946, ora in J.Dubuffet, Prospectus et tous écrits suivants, Op.cit.

[18] Ivi

[19] Ivi

[20] Cfr. J.Dubuffet, Asfissiante cultura, trad.it. Abscondita, Milano 2006

[21] Ciò vale non solo per il  poietés, ma anche per il fruitore, se è vero che, come si è chiesto Derrida: “ Quando ammiriamo delle opere d’arte, non le oltrepassiamo di continuo in direzione di un’arte all’opera, di un’arte al lavoro che trascende l’opera?”(J.Derrida, “Il giusto senso dell’anacronia”, in J.Derrida – C.Sini, Pensare l’arte. Verità, figura, visione, a cura di Studio Azzurro, Federico Motta, Milano 1998, p. 19). A tale proposito, M. Donà – tenendo insieme l’atto della produzione e quello della fruizione – scrive: “Lo sa bene ogni vero artista,che mai la perfezione di volta in volta posta in essere potrà illuderci di aver risolto qualcosa: perciò la medesima riuscirà a farsi pienamente affidabile non tanto nell’esibire un compimento conclusivo, quanto piuttosto(anzi, solo in ciò!) nell’affidarsi al dispiegamento di una mai esauribile potenza creatrice, di fatto infinitamente autorigenerantesi.(…)Per questo, trovandoci  al suo cospetto, ci sentiamo ogni volta chiamati a (…) procedere nello svolgimento della sua pur evidente perfectio. Ossia a dire oltre(…)”(M. Donà, “Nel “tempo” di Dio”, in M.Donà- S. Levi Della Torre, Santificare la festa, il Mulino, Bologna 2010, pp. 129-130)

[22] Il riferimento al “poroso”, per il pensiero occidentale, riporta alla hegeliana “Filosofia della natura”, laddove, trattando della “vita fisica della terra”, Hegel afferma che nei “processi elementari” della natura, “ogni esistenza fisica è ridotta al (…) caos di materie, che entrano ed escono negli immaginari pori di ciascun’altra”.( G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tomo I,   edizione  it. a cura di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1975,  p. 219). Il grande filosofo tedesco torna a parlare del “poroso”, al termine dell’Enciclopedia, quando tratta del compimento, quale ritorno al cominciamento, dello Spirito assoluto nella  Filosofia.

[23] L.Mango, “Tra opera ed evento”, in Shozo Shimamoto. Samurai, acrobata dello sguardo 1950-2008, a cura di A. Bonito Oliva, Skira, Milano 2008, pp.31-51  

[24] Cfr. R.Gasparotti, “Arte e violenza nel contemporaneo. Forza, sangue versato, “doppi mostruosi”, in AA.VV. Sulla violenza, Cronopio, Napoli 2009, pp. 155-180.

25] P.Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, trad.it. Einaudi, Torino 1993

[26] C.Tomkins, The Bride and the Bachelors: Five Masters  of the Avant-Garde, Penguin, New York 1976, p. 144

[27] F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, in “Opere di Friedrich Nietzsche, vol. IV, a cura di G.Colli e M.Montinari, Adelphi, Milano 1971, p. 161

[28] W. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, trad.it. De Donato, Bari 1968, cit.p. 48

[29] Ivi

[30] Cfr. W.Benjamin, Per la critica della violenza(1921), in “Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad.it. , a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 5- 28.

[31] Mentre la prima divinamente, nel suo mai prevedibile irrompere, annienta e sovverte ogni ordine – in tal senso è sempre insieme distruttrice e rifondatrice –  ma sempre in vista del perpetuarsi della vita e  quindi per la salvezza del vivente,  la violenza mitica, impura e solo  umana, invece, è quella violenza cruenta, che  si esercita contro das blosse Leben, contro la pura vita, perché  per essa, la vita è solo un  mezzo in vista della realizzazione di determinati scopi e quindi può essere, senza limite,  violata, distrutta, soppressa.
Non si tratta, in Benjamin, di opporre due diverse forme di violenza. La violenza è sempre una. Solo che, per violenza  impura, Benjamin intende l’appropriarsi strumentale e utilitaristico da parte dell’uomo della violenza per esercitarla cruentemente contro la vita in vista dell’ottenimento di scopi e obiettivi umani, troppo umani. Mentre la violenza divina è la violenza pura, la quale non è mai nelle mani né in potere dell’uomo – anzi essa è assolutamente imprevedibile, non concettualizzabile e riconoscibile dagli uomini semmai solo a posteriori nei suoi effetti, i quali comunque sono in ogni caso singolari e del tutto incomparabili l’uno all’altro. Questa è la violenza che spezza ogni norma, ogni  ordine dato e dissolve ogni stagnazione di senso, affinché nuovi sensi si diano, nel perpetuarsi della vita. Ci siamo estesamente occupati della questione in R.Gasparotti, Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007, in particolare alle pp.143-172.

[32] Aristotele nella Poetica, riconduce la mimesis artistica all’ attività dell’ypokrinesthai propria del sacerdote dell’oracolo e dell’interprete dei sogni, oltre che dell’attore tragico, il che vieta di concepire la mimesis  come la copia o riproduzione di un certo modello o dato originali. Il responso dell’oracolo non è affatto la riproduzione dell’epifania  del dio – che resta assolutamente Altro e non parla il linguaggio degli uomini  –  così come l’interpretazione di un sogno non è affatto la duplicazione né la riproduzione del contenuto sognato, che al risveglio inevitabilmente è svanito.  Piuttosto l’attività di mascheramento dell’ypokrités è ciò che  porta qui e ora presente  l’irriducibile assenza e l’abissale distanza di ciò cui la  maschera  allude. In tal senso arcaicamente la maschera  aveva a che fare con il divino e con il sacro, nella sua prerogativa di evocare qui e ora  l’assenza di  quell’assolutamente Altro, che appartiene e continua ad appartenere ad un  mondo del tutto estraneo, senza poterlo catturare, senza rappresentarlo, senza riprodurlo, ma preservando, invece,  l’incolmabile distanza  dovuta alla sua abissale e irriducibile assenza.

[33] Scrive Lorenzo Mango, nel suo fondamentale saggio su Shimamoto: “Se ci siamo sentiti dire che, negli ultimi lavori di Shimamoto, la pittura entra in gioco come parte di un più complessivo teatro, ora diciamo anche il contrario:che tale teatro esiste e ha senso di esistere solo in funzione dell’esito pittorico(…) I grandi eventi performativi possono essere letti, a loro modo, come delle scritture, col mondo a fungere da pagina bianca(…). L’atto immediato,concentrato e secco del calligrafo diventa in Shimamoto, un atto del corpo. Che si fa tramite della pittura, per rigenerare, attraverso ilcolore, le cose con cui entra in contatto.”(Op.cit. pp.49)

[34] Vedi Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro nō, a cura di R.Sieffert, trad.it. Adelphi, Milano 1966. Il “fiore meraviglioso”- il culmine dell’arte dell’attore – consiste, per Motokiyo, nell’”insolito come lo prova lo spettatore”. Come spiega molto bene G. Pasqualotto: “La capacità di produrre l’insolito comporta la capacità dell’attore di fare il vuoto dentro di sé(…)La produzione dell’insolito non porta in realtà ad un’invenzione assoluta, (…)ma consiste nel non irrigidirsi  in una’maniera’ particolare.”. La “particolare ‘disposizione della mente’ senza la quale non si arriva al ‘fiore’, è la non-mente(mushin)”(G.Pasqualotto, Op.cit. pp. 137-138). Il termine mushin viene anche tradotto con “inconscio”, anche se, evidentemente, non ha assolutamente nulla a che fare con l’inconscio freudiano!

[35] Cfr. A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte(1986), trad.it. Aesthetica, Palermo 2008

[36] Cfr. R.Gasparotti, L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse, Moretti&Vitali, Bergamo 2010.

[37] I.Kant, Kritik der Urteilskraft(1790), ed. it. Critica del giudizio, trad. di A.Gargiulo(riv. da V.Verra), Laterza, Roma-Bari  1997, p.127

[38] Ivi