L’opinione comune ritiene che per dipingere non si possa fare a meno di pennello e colori. Finora non è quasi mai esistita una pittura senza questi due elementi, considerati per intrattenere un rapporto inscindibile. Eppure il loro rapporto non è dei più pacifici. Anzi, a pensarci, le finalità delle sostanze coloranti sono state subordinate all’esistenza del pennello. E il cammino percorso dalle tinture non è altro, in ragione di ciò, che la storia di una lunga sfida col pennello. La storia di pennelli e colori inizia assieme. Quando si incominciarono ad adoperare pennello e sostanze coloranti, queste ultime non erano in assoluto considerate virtualmente necessarie da chi dipingeva. Con toni e colori il fine pittorico sarebbe potuto essere in teoria raggiunto. È un po’ come quando in geometria si parla di una linea: essa non ha spessore. Ma quando poi la si traccia su un foglio, essa un certo spessore lo avrà, come anche i punti geometrici, che dimensione non dovrebbero avere, sul foglio ne assumeranno una. Così è irrealizzabile un colore che non sia accompagnato dalla materia. E quindi si rese necessario adottare sostanze coloranti, accettare la mediazione in materie che esprimono colore, per dar vita a quella pittura che tutti conosciamo. La tragica storia dei colori aveva avuto inizio. Una volta intrapreso tale modo di intendere e di usare le sostanze coloranti, si sono poi succedute varie svolte tecniche. Nell’arco di questa storia sono stati Poussin e Leonardo da Vinci coloro che meno hanno badato al colore come sostanza, quasi sconfiggendone la materialità.
Quando io iniziai a usare le sostanze coloranti non sapevo molto sui pennelli adoperati durante il Rinascimento; ma sono sempre stato certo che ovunque al mondo il pennello ad altro non sia servito e non serva che ad esprimere il colore svuotando di forza nella sostanza colorante, cioè ad asservire quest’ultima allo scopo di creare colori di cui la stessa sostanza non sia altro che strumento. In ciò il Giappone ha fornito alcuni dei migliori esempi. Eppure, come una linea priva di spessore non esiste, un colore senza materia non si concretizza. In ogni occasione e luogo la sostanza colorante oppone resistenza al pennello. Chiunque sia l’autore del dipinto, Rembrandt, Pissarro, Van Gogh, Utrillo o altri, si riuscirà sempre a riconoscere chiaramente con cosa esso sia stato fatto. Per quanto l’artista si prodighi a profondere il proprio genio spirituale con il pennello tentando di rimuovere la materialità della colorazione, in ogni tela la sostanza che le dà colore rimarrà riconoscibile. Nulla può il pennello contro simile ostilità. Per contro, screpolature ed erosioni, o magari una mutazione di colore sopravvenuta inaspettatamente, ci fanno scoprire la bellezza intrinseca nelle sostanze coloranti.
È nella produzione romantica o in quella surrealista facente capo a Dalì che un pennello vigorosamente attivo serve a strumentalizzare completamente il colore materiale assoggettandolo all’intento narrativo. Utrillo e Vlaminck rappresentano un prezioso monumento alla storia della resistenza dei materiali coloranti. Il loro tocco dipinto con la spatola ha chiaramente teso a scansare, quasi scongiurandola, la sostanzialità materiale del colore. Neanche essi però hanno potuto liberarsene del tutto.
Manet e Van Gogh non hanno fatto altro che spostare l’accento dalla ripetizione visiva dell’oggetto naturale preso a modello alla rappresentazione di immagini soggettive dell’autore, ma per grandi che siano i risultati da essi ottenuti, il loro rapporto con le sostanze coloranti non mutò rispetto ai precedenti. Il materiale colorante resta insomma un mezzo espressivo. Ad esempio, Utrillo, per quanto lasci da parte il pennello e usi la spatola, non farà che mediare sulla tela la propria espressività. Solo il fatto di amalgamare in quella immagine espressiva una bellezza proveniente dalla qualità materiale dei colori lo differenzia da Poussin. Chiunque finora ha fallito ogni tentativo di liquidare col pennello la materia colore, è stato comunque costretto a cedere al compromesso. Noi invece oggi non vogliamo più adoperare le qualità dei coloranti (si tratti di oli o smalti) distorcendole. L’ho già detto: un colore senza materia non esiste. Nel fare un quadro, quindi, rappresentazione di un’immagine naturale o di un’idea poco importa, non resta che conservare quella bellezza della materia che sopravvive talora anche alla prova di forza del pennello. Io credo che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello. Se in procinto di creare non si getta via il pennello non c’è speranza di emancipare le tinte. Senza pennello le sostanze coloranti prenderanno vita per la prima volta. Al posto del pennello si potrebbe usare con profitto qualsivoglia strumento. Per iniziare, le nude mani o la spatola da pittura. E poi ci sono gli oggetti adoperati dai membri del gruppo Gutai: annaffiatoi, ombrelli, vibratori, pallottolieri, pattini, giocattoli. E poi ancora i piedi, o le armi da fuoco, o altro. E in tutto ciò potrebbe anche ricomparire il pennello, perché non vi è dubbio che in simili elaborazioni innovatrici qualcosa del passato torna in essere. Ma che sia un qualcosa non più ideato per umiliare e uccidere le qualità delle materie coloranti, bensì per renderle ancora più vive.
Tratto da Bollettino «Gutai», n.6 Ōsaka, 1° aprile 1957