Parlare di teatro del colore, nel caso di Shozo Shimamoto, non è solo usare una bella metafora per sintetizzare un modo di fare pittura, è una maniera, invece, per affrontare il suo lavoro alla luce di un problema di ordine critico che possiamo sintetizzare come la questione dei generi nell’arte moderna. Si tratta di un argomento per molti versi già pienamente definito, dal punto di vista storico, per altri, però, ancora in gran parte da ragionare. E’ un dato, infatti, che l’intero corso del Novecento, e la sua seconda parte in maniera particolare, sia attraversato da tutta una serie di esperienze artistiche che hanno fatto della frattura dei confini istituzionali dei codici linguistici il loro territorio espressivo. Questo si è manifestato attraverso due soluzioni principali, l’ibridazione e lo slittamento. La prima prevede la contaminazione di segni tradizionalmente appartenenti ad ambiti linguistici diversi, il secondo, invece, una vera e propria “invasione di campo” di un medium espressivo rispetto ad un altro.
C’è, però, un dato ulteriore che caratterizza la ridefinizione o, per utilizzare un’espressione di Rosemberg, la s-definizione dei generi, il fatto, cioè, che i processi di ibridazione e slittamento siano, per lo più, caratterizzati da un fenomeno di teatralizzazione. Vale a dire che la perdita di consistenza dello specifico si è tradotta in una maniera consistente nella sostituzione di un evento ad un oggetto. E’ la condizione di performance e performatività che denota in un modo significativo la nozione di arte del XX secolo e porta a parlare di una teatralizzazione delle arti, nel senso che esse, pur conservando una loro connotazione d’origine, si sono tradotte in una forma di scrittura che agisce concretamente all’interno di un certo spazio utilizzando un certo tempo.
E’ un concetto chiave e, allo stesso tempo, un problema chiave. Se, infatti, è evidente il processo di traduzione e perdita dello specifico di un’operatività artistica che tenda a fare evento dei suoi materiali linguistici, mettendo in gioco il corpo accanto allo spazio e al tempo, meno chiaro è parlarne in termini di teatro, o almeno di teatralità. Se, infatti, si risale alla nozione codificata di teatro, di esso non possiamo parlare certo quale scrittura del tempo e dello spazio attraverso il corpo, quanto di una soluzione di narrazione drammatizzata, che usa corpo, spazio e tempo ma in una prospettiva rappresentativa. Però parlare di teatralizzazione delle arti ci convince, perché? Perché è il teatro, in primo luogo, ad aver rivisto e ridisegnato l’ambito della sua pertinenza, non in nome della perdita del suo specifico ma, all’inverso, in nome della conquista di uno specifico che non va confuso con la dominante drammaturgico letteraria tipica della tradizione occidentale. Il lavoro teorico di figure come Gordon Craig o Artaud, nella prima metà del Novecento, genera l’idea di una fondazione linguistica del teatro che consiste nella scrittura della scena. E, sulla base di quelle convinzioni, John Cage, nel 1965, può affermare: «Vorrei semplicemente dire che il teatro è qualcosa che impegna sia l’occhio che l’orecchio. Vista e udito sono i due sensi pubblici; gusto, tatto e olfatto sono più appropriati per situazioni intime e non pubbliche. La ragione per cui voglio che la mia definizione di teatro sia così semplice è che così si potrebbe considerare anche la vita di ogni giorno come teatro», aggiungendo poco più avanti: «Se si sta in una stanza mentre un disco sta suonando e la finestra è aperta e c’è un po’ di brezza e una tenda sta svolazzando, questo è sufficiente, mi sembra, per produrre un’esperienza teatrale». Le parole di Cage creano uno spostamento radicale delle categorie estetiche che definiscono il teatro come linguaggio riconducendole alla scrittura di un atto fisico che accade concretamente, e non necessariamente rappresentativamente, di fronte ad uno spettatore. Teatro è ciò che accade materialmente, non ciò che simula di accadere narrativamente.
Questo slittamento concettuale, o chiamiamolo anche meglio questa vera e propria rivoluzione della nozione di teatro è quanto rende possibile il fenomeno della teatralizzazione delle arti novecentesche. Potremmo dire che le arti tendono al teatro nella misura in cui il teatro ripensa se stesso. E’ un dato concettualmente un po’ complesso e articolato che ci aiuta, però a comprendere la frattura e ridefinizione dei generi e, soprattutto, la teatralizzazione delle arti e in particolare la performance. Stiamo dicendo che tutte le arti che praticano l’elemento della performatività diventino teatro? No, anche se Michael Kirby, cercando una sistematizzazione “a caldo” dell’happening ne scrive, nello stesso 1965, come di un nuovo genere teatrale. Osservazione interessante perché ci aiuta a muoverci all’interno di un intreccio abbastanza intricato di problemi. D’altronde la questione della identità dei fenomeni artistici performativi non può confondersi con una sorta di ossessione tassonomica, ma riguarda, invece, la leggibilità di tali fenomeni, la loro possibile interpretazione, nella dialettica di relazione che li lega ad altri fenomeni ritenuti statutariamente analoghi. E’ un dato che in una grande quantità di casi, pur se caratterizzati da processi di ibridazione linguistica, poi gli eventi performativi finiscano per essere criticamente catalogati solo nell’ambito di “appartenenza” (anche se è un ambito negato) dell’artista. Così il Teatro delle orge e dei misteri di Hermann Nitsch ha poco spazio negli studi teatrali e, viceversa, i fatti performativi che caratterizzano una certa stagione del teatro sperimentale restano confinati dentro i confini degli studi teatrali.
Il caso di Shozo Shimamoto è emblematico da questo punto di vista anche perché è tra i primi, negli anni cinquanta, a tradire la pittura in nome di qualcos’altro, in nome di un evento pittorico. Un tradimento che non rinnega frontalmente il genere ma lo mette in discussione, lo tratta come problema e non come dato di fatto. La questione critica che abbiamo posto ha, dunque, nel suo caso un significato particolare che sarà interessante investigare, ma prima è necessario fare un lavoro di ricostruzione dei fatti e del contesto in cui i fatti hanno avuto luogo, per avere gli opportuni termini di riferimento.
Il Giappone della fine degli anni quaranta e dei primi anni cinquanta è lo scenario dell’esordio di Shimamoto. Uno scenario particolarmente difficile e problematico. Uscito devastato dalla guerra il Giappone sta faticosamente iniziando a ripensare se stesso. Certezze secolari, conservate gelosamente grazie all’isolamento politico e culturale, cominciano ad andare in crisi e contemporaneamente il contatto con mondi diversi dal proprio, e con quello occidentale in particolare, comporta un’accelerazione nei processi di trasformazione e riedificazione sociale. E’ l’avvio di un percorso, vissuto come lacerazione, lo shock della guerra è ancora troppo forte, ma anche come apertura di prospettive.
Dal punto di vista artistico la situazione si presenta, per molti versi, analoga. Si apre, infatti, una lacerazione profonda che, grazie al confronto con l’arte contemporanea occidentale, mette in moto processi nuovi che rappresentano una discontinuità forte con la tradizione nazionale, di cui si rifiuta la veste istituzionale ma non alcuni, fondamentali principi fondativi, specie sul piano filosofico. Si determina, così, un interessante confronto fra rifiuto e rilettura, tra lacerazione e ritessitura, un confronto che apre, come vedremo, scenari importantissimi e straordinariamente vitali.
Ci sono due fenomeni che negli anni cinquanta, pur in modi e secondo prospettive profondamente diverse, esemplificano bene questo processo dialettico fra crisi e inizio: la danza Butoh e il gruppo Gutai.
Alla fine degli anni cinquanta Kazuo Ohno e Tatsumi Hijkata cominciano a sperimentare una forma di danza stravolgente e innovativa. La performance è basata sui corpi degli attori ricoperti di uno strato di terra biancastra che li trasforma in figure spettrali. I movimenti sono come anchilosati, il corpo rattrappito. C’è un rifiuto del ritmo, della libertà espressiva. Mani, piedi, arti agiscono come segnali in codice, deformando ogni forma di naturalezza. L’effetto è di una tragicità grottesca che rispecchia appieno il sentimento drammatico che anima la cultura giapponese. La partitura gestuale nasce, infatti, come una sorta di deformazione dei codici del teatro classico giapponese, che vengono ibridati con motivi di ascendenza occidentale. Artaud e Genet sono tra i loro riferimenti. L’impatto è duro, la provocazione nei confronti di una società ancora ingessata com’era quella giapponese, fortissima.
Il Butoh rappresenta, dunque, una sorta di corto circuito culturale, dando vita ad una delle prime importanti esperienze di deterritorializzazione linguistica della danza moderna. Il caso di Gutai presenta dei tratti analoghi, anche se profondamente diversa è l’impostazione e diversa la sua genesi. Nasce, infatti, nel 1954 come momento di sintesi di tutta una serie di fermenti che attraversano l’arte giapponese e che si erano concretizzati, tra la fine degli anni quaranta e i primissimi cinquanta, in due movimenti: il Gruppo Zero e il Genbi, Gruppo di discussione per l’arte contemporanea. Si trattava di due gruppi di giovani artisti che avevano avviato un processo di radicale ripensamento della tradizione artistica e pittorica in particolare, avendo come riferimento le pratiche informali ma forzandole anche in una direzione di cancellazione e azzeramento (il Gruppo Zero è, ovviamente, straordinariamente importante da questo punto di vista). D’altronde, alle spalle dei giovani artisti giapponesi degli anni cinquanta, ci sono anche alcuni movimenti, fra tutti l’Associazione degli artisti liberi e l’Associazione di arte e cultura, che già dagli anni trenta si ripromettevano di introdurre nel contesto giapponese elementi di innovazione, ricavati, per lo più, dal confronto con le avanguardie europee.
Parlare, però, di ripensamento della tradizione nazionale alla luce del modernismo delle avanguardie, come abbiamo fatto nel caso del Butoh, non è nel caso di questi movimenti pittorici appropriato, perché manca, in un senso tecnico e storico proprio nella storia giapponese, qualcosa che identifichi l’arte visiva, la pittura, come ambito specifico circoscritto, così come siamo abituati a considerarla in occidente. L’avventura dei pittori moderni giapponesi nasce, dunque, in relazione in primo luogo con le avanguardie, passate o recenti, europee e occidentali in genere e poi in relazione con qualcosa che nella nostra concezione dei generi è, in fondo, altro dalla pittura (o quanto meno è qualcosa di difficilmente catalogabile), l’arte della calligrafia.
Figura centrale di questo processo è Jiro Yoshihara, pittore ma soprattutto animatore culturale, che nel 1954 fonda Gutai, riunendo assieme le forze giovani più vitali della pittura giapponese. Shimamoto è tra i fondatori del gruppo. E’ anzi colui che lo battezza con un termine, gutai, che significa concretezza, in opposizione evidentemente ad astrazione (si pensi, al proposito, all’espressione musica concreta per identificare alcune delle più radicali forme di sperimentazione sonora) ed è proprio casa sua la sede del gruppo. Yoshihara è un intellettuale molto aggiornato. Di una generazione più anziano dei suoi giovanissimi compagni di strada, conosce bene i fermenti dell’informale europeo e ancora meglio le avanguardie del primo Novecento. Andare oltre Mondrian era un suo “slogan”, un modo di segnalare l’esigenza di superare il razionalismo minimalista, progettuale e astratto di cui il maestro olandese è stato il massimo esponente. Suo obiettivo era affrontare territori sconosciuti, sperimentare soluzioni linguistiche che reinventassero i parametri dei codici artistici. «Create ciò che non è mai stato creato prima» diceva, con un evidente spirito avanguardistico, ai suoi giovani compagni di strada.
Gutai nasce, dunque, come un movimento di invenzione pura, radicale e assoluta che vuole “reinventare l’arte” intessendo un dialogo ed anche una contrapposizione dialettica con la tradizione occidentale, sia essa la più remota che la recente. Nel Manifesto Gutai del 1956 (significativo che scriva un “manifesto” di poetica, sulla scia delle avanguardie europee) Yoshihara sostiene l’esigenza di non essere confusi col dadaismo e, ancor prima, cita il Rinascimento come termine di riferimento storico. Altrettanto, se non di più, fa Shimamoto nel suo scritto teorico più importante Per una messa al bando del pennello del 1957. «Quando ho iniziato a usare le sostanze coloranti – dice a spiegazione della sua tecnica pittorica basata sulla materialità del colore – non sapevo molto dei pennelli adoperati durante il Rinascimento» e aggiunge «sono stati Poussin e Leonardo da Vinci coloro che meno hanno badato al colore come sostanza, quasi sconfiggendone la materialità». Cita, poi, di seguito Rembrandt, Pissarro, Van Gogh, Utrillo, Manet, evidenziando come, nel suo ragionamento, la “storia dell’arte” coincida con la storia dell’arte occidentale. Ci sono certo, nella scelta sua come in quella di Yoshihara, delle ragioni per così dire strategiche, nel senso che gli scritti che abbiamo citato sono pubblicati sul bollettino di Gutai che veniva distribuito a livello internazionale ed era pensato come ponte gettato verso il mondo occidentale perché conoscesse quanto il gruppo andava facendo. Ma ci sono anche, e direi soprattutto, ragioni di sostanza: la rivoluzione Gutai è pensata in rapporto con le conquiste dell’avanguardia occidentale. Accanto a tale rapporto, però, Yoshihara ne coltiva un altro, quello con la calligrafia e in particolare con il movimento d’avanguardia Bokuju-Kai. Di questo interesse sono partecipi i giovani del gruppo e in particolare Shimamoto che nutre un’ammirazione particolare per Nantenbo, il grande maestro vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo che, pur seguendo la linea maestra della tradizione, la interpretava personalmente attraverso una scrittura fatta di grandi segni eseguiti in una maniera libera e impulsiva.
Determinante in questa cornice di riferimenti e di scambi l’incontro con l’action painting di Pollock, non a caso citato, nel Manifesto Gutai, come esempio di uno sperimentatore che ha saputo mettere in discussione e superare le conquiste delle avanguardie. In Pollock Yoshihara trova espresso un concetto che è alla base della sua visione estetica: l’arte è azione. Un simile concetto, la centralità se non l’assolutizzazione dell’evento, se è una condizione in una certa misura familiare alla cultura giapponese grazie allo zen, trova nell’esperienza di Pollock una definizione precisa. Pollock ha, nell’arte del secondo Novecento, un ruolo analogo a quello assolto da Duchamp nella prima metà del secolo: essere una sorta di “catalizzatore culturale” che sintetizza un certo clima operativo e lo definisce come idea di arte. Il suo dripping, se è tecnica pittorica, assume anche una configurazione autonoma. Ricorda Hans Namuth, il fotografo che lo immortalò al lavoro in una serie di straordinarie immagini nel 1950, che i suoi movimenti, mentre dipingeva, assomigliavano ad una vera e propria danza. L’atto di dipingere appare come staccato, autonomo rispetto al risultato che si ripromettere di raggiungere, si fa evento. Ma è ancora un evento privato, la cui visione va rubata da un testimone d’eccezione come è Namuth. Il dado concettuale però, l’arte è azione, è tratto.
Un secondo, determinante passaggio in questa direzione è rappresentato da un episodio divenuto a suo modo leggendario, per la sua eccezionalità e la sua eccentricità, in quanto si svolse al di fuori degli abituali circuiti dell’arte. E’ l’estate del 1952, in un college della Carolina del nord, il Black Mountain College, John Cage, uno degli insegnanti che elaborano nuove, sperimentali strategie pedagogiche, realizza un qualcosa di così particolare e così distante dai modelli artisti codificati da poter essere definito solo come un evento. Aperto negli anni trenta, il Black Mountain College rappresentava il progetto di una scuola d’arte interdisciplinare, il cui insegnamento nascesse (ad un livello che definirei istituzionale) come sconfinamento di codici e linguaggi. D’altronde, subito dopo la chiusura del Bauhaus nel 1933 con l’ascesa al potere di Hitler, vi si erano trasferiti i coniugi Albers, Joseph e Anni, che vi avevano introdotto il progetto totalizzante, che metteva in gioco le singole arti in nome dell’opera d’arte totale, tipico della scuola fondata da Gropius. Proprio nel Bauhaus, d’altronde, l’insegnamento del teatro, affidato a Schlemmer, aveva dato luogo ad invenzioni di nuovi esperimenti scenici, in cui intervenivano musica, coreografia e pittura e, sempre grazie al dipartimento di teatro, avevano luogo delle feste dalla forte caratterizzazione performativa. John Cage nell’estate del ’52, dunque, interpretando in un modo particolarmente estremo e radicale gli assunti della scuola dà vita a un evento particolare che coinvolge Merce Cunningham, Robert Rauschenberg, Mary Caroline Richards e gli allievi della scuola. Si tratta del montaggio casuale di una serie di azioni nate dalla libera invenzione dei partecipanti e montate assieme in una sorta di collage paradossale. E’, a tutti gli effetti, il primo degli happening. L’opera sconfina nell’evento fino a smarrirsi completamente in esso.
Gutai rappresenta il terzo fondamentale momento inaugurale dell’arte come evento. Le esibizioni all’aperto che hanno luogo ad Ashiya nel 1955 e nel 1956 sono l’occasione per vere e proprie istallazioni ambientali basate in gran parte sull’interazione con lo spazio e col visitatore, in modo da tradire la dimensione contemplativa dell’opera e sostituirla con l’esperienza attiva del momento della fruizione, mettendo in gioco spazio e tempo come vere scritture. Ancora di più orientate in una direzione performativa sono le serate di “Gutai Art on the Stage” che hanno luogo ad Osaka nel 1957 e nel 1958. In quell’occasione, infatti, gli artisti Gutai diedero vita ad una serie di azioni sceniche, come una sorta di vera e propria scrittura scenica ante litteram, «per confrontarsi autonomamente con quello spazio artistico peculiare che è il teatro, con il suo modo di operare, vale a dire con suoni, luce, temporalità».
Di lì a qualche anno, il 1959, grazie ad Allan Kaprow l’happening farà dell’evento, dell’accadimento un vero e proprio codice linguistico.
Questa sorta di schema, incompleto ed eccessivamente sintetico, di alcune delle vicende artistiche legate alla nozione di arte come evento serve a far capire come si muova il fenomeno della teatralizzazione dell’arte negli anni cinquanta e come Gutai rappresenti di tale fenomeno un momento determinante. Oltre ad una serie di eventi particolarmente importanti, sono entrati in gioco anche alcuni termini guida significativamente messi in relazione tra di loro: arte e azione; danza e pittura; opera ed evento. Sono termini che ci aiutano a mettere a fuoco una certa zona di confine tra i linguaggi – Menna la chiamava un terrain vague per indicare un luogo concettualmente sdrucciolo quanto aperto a un orizzonte infinito del possibile – lì dove la pittura e le pratiche spettacolari si incontrano determinando un “qualcosa” dalla identità problematica. E’ lì che dobbiamo andare a cercare il teatro del colore di Shimamoto, come pratica di linguaggio, dunque, non come metafora della pittura.
Shimamoto è tra i giovani più vicini a Yoshihara. Verso la fine degli anni quaranta, interpretando personalmente lo spirito di libera invenzione del maestro, comincia a sperimentare soluzioni linguistiche e tecniche, che rompano gli schemi codificati della pittura. Nascono così i “buchi”, opere formate dalla sovrapposizione di fogli di carta, ricoperta per lo più da uno strato materico di bianco sporco, su cui l’artista agiva, strusciandovi sopra fino a produrre delle lacerazioni che lasciava aperte come veri e propri varchi nella superficie. Si tratta di opere in cui è evidente l’intenzione di andare oltre la forma, di trattare la superficie come un fatto fisico e di pensare già all’atto pittorico come un evento. I “buchi” di Shimamoto sono il risultato di un vero e proprio corpo a corpo con la materia ma anche, simbolicamente, un corpo a corpo col codice artistico, che viene esso stesso logorato e incrinato. L’opera nasce nel momento in cui la superficie non regge più alla sollecitazione cui è sottoposta. Il risultato non è, se non in parte limitata, premeditato, ciò che lo determina è un insieme di fattori che Shimamoto lascia semplicemente che accadano. Il quadro è esso stesso un accadimento, pur se ancora saldamente inquadrato dentro la sua cornice.
Quando Yoshihara fonda Gutai, s’è detto, Shimamoto è probabilmente la persona che più gli è vicina. L’idea di “concretezza” che fonda la poetica del gruppo si traduce, in lui, in una nuova dimensione sperimentale. I “buchi” vengono superati e Shimamoto è come se estraesse, da quella tecnica e dalla logica ad essa connessa, la dimensione dell’evento, che in una qualche misura si assolutizza, nel senso che si distacca da un esito finale, altro da sé, come è l’opera, ancora, nella serie dei buchi. L’occasione per cimentarsi in questa nuova dimensione gli è offerta dalle iniziative Gutai a cui abbiamo in precedenza fatto riferimento. La particolare situazione ambientale in cui si trova ad operare gli offre, infatti, la possibilità, se non addirittura la necessità, di dover inventare nuove soluzioni espressive.
Nella prima delle mostre all’aperto di Gutai, la “Mostra sperimentale all’aperto di arte moderna”, realizzata nel parco cittadino di Asiya nel 1955, Shimamoto espone una grande lastra di metallo tempestata di buchi. Sembrerebbe lo sviluppo del lavoro fatto in precedenza ed invece si tratta di qualcosa di profondamente diverso. Più che dell’esposizione di un’opera si tratta, infatti, di un intervento ambientale, della istallazione all’interno dello spazio naturale di un segno visivamente forte che ha la funzione di stimolare la reazione dello spettatore. L’intenzione di superare l’esposizione dell’opera è ancora più esplicita nella seconda edizione dell’iniziativa, l’anno successivo, quando Shimamoto presenta una strana passerella di legno colorato dal titolo emblematico: Prego, camminate sopra. L’invito rivolto al visitatore è esplicito. L’oggetto non è fatto per essere contemplato ma va usato: quando vi si sale sopra il pavimento dell’asse si muove mettendo in discussione l’equilibrio. Quella proposta da Shimamoto è la rilettura di un gioco infantile e non a caso il mondo dei bambini, e “l’arte dei bambini”, sono da sempre indicati dall’artista come uno dei suoi punti di riferimento. I bambini, con la loro incondizionata libertà inventiva, e Nantenbo, il grande e trasgressivo calligrafo di cui Shimamoto apprezza le sbavature, gli sbiadimenti, le gocciolature. Quanto cioè evidenzia la natura effimera, il “momento” che caratterizza e qualifica l’atto della scrittura. Non tanto il segno, ma, diremmo noi in un inappropriato linguaggio occidentale, la sua “sporcatura”. La passerella, più ancora della lastra coi buchi, indica chiaramente l’intenzione di Shimamoto. L’obiettivo è determinare un micro-evento, che sfiora la dimensione quotidiana, ma se ne distacca, anche, perché decontestualizza, duchampianamente, la destinazione dell’oggetto e le attese del fruitore.
Il gioco con gli oggetti e con le reazioni dello spettatore viene sviluppato in occasione delle due edizioni di “Gutai on the Stage”. Quella manifestazione prevedeva che la natura in una qualche misura spontaneamente performativa nelle esposizioni all’aperto si confrontasse e si verificasse in maniera più diretta col teatro. Vale al proposito quanto dicevamo poc’anzi. Il problema non è mettere a confronto l’attività pittorica (chiamiamola così per comodità anche se è improprio) con il “modello del teatro”, ma di mettere in gioco in una maniera libera, inventiva e soprattutto svincolata da ogni destinazione rappresentativa alcuni elementi che si possono ritenere fondanti del teatro – spazio tempo corpo presenza – alla condizione che se ne ridisegnino daccapo gli statuti. E’ quanto fa Gutai, inventando un teatro e non applicando la sua attitudine visiva a un teatro, anzi a un concetto di teatro, già esistente. Gutai sulla scena, proprio nel momento in cui tematizza il rapporto con il teatro crea non solo un risultato scenico particolarmente innovativo, ma determina qualcosa che potremmo definire una nuova fondazione del linguaggio teatrale. Si lega, in questo, a quella cosa straordinaria che è il “teatro dei pittori” del Novecento, a cominciare da Prampolini, Schlemmer, Kandinskij e finire (per così dire) a Kaprow, Nitsch, lo stesso Gutai, ma anche, pur se in maniera diversa, a Julian Beck, Tadeusz Kantor e Bob Wilson, lì dove i pittori concorrono in maniera decisiva alla rivoluzione teatrale del Novecento. Le due serate Gutai hanno, in questo contesto, un’importanza notevolissima. Se, infatti, mettono in gioco in una maniera estrema l’idea di arte come azione ed evento, sono anche un modo per ripensare il linguaggio teatrale come evento fisico di occupazione di uno spazio-tempo, come scrittura scenica, come si sarebbe detto qualche anno dopo.
Le due serate erano il montaggio – un po’ alla maniera futurista o del Bauhaus – di una serie di brevi eventi performativi, di natura anche molto diversa tra loro. Il segno che li caratterizzava tutti, però, era una sorta di “apparizione” improvvisa subitanea che, nel caso dell’azione performativa di Kazuo Shiraga del 1957, aveva un riferimento diretto col teatro, citato in una forma di danza tradizionale, riletta e ripensata in una maniera moderna e vagamente parodica, come accadeva d’altronde anche per il gioco coi costumi “a strappo” di Atsuko Tanaka. Shimamoto, invece, scelse, sempre per quella prima edizione di “Gutai on the Stage”, una via più astratta, dando vita ad un’azione in cui accentuava la dimensione spettacolare di quanto aveva sperimentato sino a quel momento. La scena era immersa nel buio (che è una tipica condizione del teatro moderno, una sorta di moderno stato inaugurale dell’evento spettacolare). Ad un certo punto venivano calati dall’alto dei globi di vetro bianco illuminati da un raggio di luce. L’artista, armato di un bastone, li colpiva frantumandoli. A questo punto scendevano due grandi tubi di vetro bianchi e Shimamoto colpiva anche questi col suo bastone ed essi, spaccandosi, lasciavano cadere sul palcoscenico quattromila palline da ping pong: un’improvvisa massa di corpuscoli in movimento che produceva un particolare e intensissimo suono. Luce e buio, immagine e suono in azione. Shimamoto riusciva, in un evento bruciante, a toccare le note più originarie, primarie e fondative di una nuova concezione del teatro. L’atto scenico, inoltre, si caratterizzava per una intensità percettiva e per un’aggressività che agivano come una pressione emotiva sullo spettatore. Qualcosa di molto diverso dalla dimensione ludica e infantile messa in gioco con la passerella di Prego, camminate sopra.
E’ un motivo, questo, che in quegli anni Shimamoto comincia a sviluppare anche su altri piani. In occasione della mostra Gutai all’aperto del 1956 presenta un’opera realizzata sparando colore sulla tela con un cannoncino rudimentale costruito da lui stesso. E’ un lavoro meno distante dalla dimensione pittorica, rispetto ai precedenti, ma non per questo meno innovativo e particolarmente interessante e importante per gli sviluppi futuri del suo lavoro. Sparare colore sulla tela significa tante cose, molte delle quali sintetizzate proprio nel testo Per una messa al bando del pennello che è dell’anno successivo. L’idea di Shimamoto è ricondurre il colore alla dimensione di materia, alla fisicità di cosa cromatica percepita come tale e non come veicolo rappresentativo (il “colore mascherato” della pittura a partire dalla grande tradizione rinascimentale). E’ un’idea molto vicina alle pratiche europee dell’informale che assume, però, per più ragioni una connotazione personale. Anzitutto Shimamoto sceglie di utilizzare un mezzo meccanico che distanzi l’artista dalla materia cromatica e metta in gioco il caso, elemento cardine, se inteso nella giusta accezione, della filosofia zen. C’è, dunque, un rifiuto della personalizzazione dell’espressione cromatica che, invece, è tipica dell’informale. A questo si associa il fatto che l’opera, lasciata a sventolare nel parco come una cosa della natura impedendone la contemplazione, è il risultato di un atto fisico, di un gesto, anche se è un gesto meccanico. Un gesto che ha in sé qualcosa di aggressivo, di violento. Il cannone sta lì a dichiarare lo shock di una guerra non ancora digerita. E’ un arma, ma un’arma il cui scopo è ribaltato. Un’arma per la pace, come intitolerà nel 2006 un suo evento spettacolo realizzato a Napoli. D’altronde dal 1999 Shimamoto ha messo in piedi un progetto che si intitola Prova di pace che consiste in una pedana di cemento su cui l’artista realizza ogni anno un’azione di colore, alla condizione che il Giappone non sia stato coinvolto in una guerra. Dunque la scelta del cannone rappresenta un modo di determinare la pittura come evento pittorico e di segnalare l’atto “violento” dell’arte come atto vitale opposto all’atto violento della guerra.
Nello stesso anno, questa idea viene affrontata per la prima volta attraverso un gesto artistico destinato a diventare una tecnica, anzi la tecnica di Shimamoto. L’artista distende una lunga tela davanti a se e la colpisce con bottiglie piene di colore che, a contatto col pavimento e con dei sassi appositamente disposti, si rompono ricoprendo di spruzzi di colore la superficie. Il risultato è una vera esplosione cromatica, ricca, vivace, piena di una intensa vitalità e di una sua qualche allegria, mescolata a un certo tono tragico. Sulla superficie, assieme alle galassie di punti e macchie di colore, restano attaccati i frammenti di vetro, quasi a lasciare una traccia sensibile del fatto pittorico, ad aggiungere un tono ulteriore di materia alla matericità della pasta cromatica.
Il bottle crash, questo il nome che Shimamoto dà alla sua tecnica, è uno sviluppo e, direi, una maturazione della sperimentazione fatta col cannone. Una soluzione più incisiva dal punto di vista dei risultati e più malleabile nelle possibilità d’uso. Consente, infatti, soluzioni di “scrittura pittorica” più articolate al cui interno far interagire la dimensione del caso, sempre fortemente presente, ma anche una qualche premeditazione. Se conta il gesto in sé, come nel cannone o nell’evento teatrale del 1957, adesso comincia a diventare importante il modo in cui il gesto viene eseguito, il modo in cui si scelgono e scagliano le bottiglie. Volendo restare nell’ambito del lessico teatrale, potremmo dire che comincia a diventare importante l’interpretazione e non solo l’immediata esecuzione.
Le molteplici possibilità che offre il bottle crash e il modo in cui Shimamoto le investiga e sperimenta sono evidenti se ne seguiamo lo sviluppo negli anni e non ci fermiamo, nell’esegesi, al dato tecnico, che è basilare ma non è l’unico a caratterizzare il lavoro. Quanto andiamo dicendo risulta evidente se confrontiamo i primi bottle crash degli anni cinquanta con quelli che Shimamoto sta realizzando a partire dagli anni novanta, con una significativa e incisiva presenza di azioni performative realizzate in Italia. Le azioni pittoriche degli anni cinquanta sono anzitutto, degli atti privati, nel senso che rappresentano un modo di realizzare i quadri e non hanno una destinazione spettacolare autonoma. D’altronde, però, vista la loro incisività, sia sul piano percettivo che su quello emotivo, vengono, fin da subito, fotografate diventando, di fatto, qualcosa a metà fra la tecnica privata di un pittore ed un evento pubblico. Questo è determinato da tutta una serie di fattori: la spettacolarità insita nel gesto in sé, ma anche il modo che Shimamoto ha di realizzarlo (almeno a quanto rivelano le fotografie) e l’abbigliamento che indossa, con cappuccio e grandi occhiali, che si trasforma in una sorta di vero e proprio costume di scena.
Nonostante tutti questi fattori di spettacolarizzazione, resta, però, che il bottle crash delle origini è e resta fondamentalmente un gesto pittorico, destinato alla realizzazione di un quadro. Ha in sé, inoltre, quel portato di sublimazione della violenza, attraverso un gesto forte e, in una qualche misura aggressivo, che è tipico della sensibilità di Shimamoto in quegli anni. Le azioni di bottle crash dell’ultimo decennio hanno, invece, una configurazione profondamente diversa, sia per quanto riguarda il rapporto tra evento ed opera che per la dimensione emotiva che all’azione è connessa. Si tratta, infatti, di veri e propri momenti spettacolari, veri atti di teatro che hanno a fondamento il bottle crash, che prevedono la produzione di quadri quale loro esito, ma che hanno una tale complessità di scrittura scenica, una tale autonomia come evento rappresentativo, una tale “pubblicità” come atto sociale da riguardare decisamente il teatro come specifico linguistico e non più solo come generica atmosfera spettacolare. Un teatro, si badi, che non simula la convenzione rappresentativa ma si affida integralmente alla scrittura scenica. In una prospettiva particolare quale è quella che abbiamo voluto nominare all’inizio del nostro discorso: il novecentesco teatro dei pittori.
Nel caso di Shimamoto un simile termine va assunto in una maniera letterale, nel senso che la sua capacità è stata tradurre il suo stesso modo di dipingere, la sua tecnica, in qualcosa che è ancora quella tecnica e quel dipingere ma è anche altro. Nel 2006 Shimamoto realizza Un’arma per la pace, grande evento di pittura teatrale a piazza Dante a Napoli. Una enorme tela dipinta ricopre una parte della piazza, proprio davanti al Convitto Vittorio Emanuele. Al centro un pianoforte a coda, di fronte all’ingresso del Convitto un lungo tubo di tela bianca. Shimamoto “entra in scena” attraverso di esso, animandolo come una sorta di strano organismo elementare. Quando esce alla luce della piazza è come una nascita, un saluto al pubblico e inizia l’azione pittorica vera e propria, lì dove quella teatrale è evidentemente già iniziata. L’artista viene appeso per un’imbracatura ad una gru e sollevato in alto a perpendicolo sulla tela, Charlemagne Palestine, uno dei grandi maestri della musica seriale, comincia a suonare un pianoforte posto al lato della scena, “doppio” di quello che campeggia al centro della tela. Shimamoto si alza sulla folla simulando un volo, guarda in basso, saluta. Gli passano dall’alto della terrazza del Convitto delle strane sfere realizzate con tantissimi bicchieri di plastica pieni di colore. Comincia il bombardamento aereo. Le sfere si schiacciano al suolo, esplodono, cominciano a dipingere la superficie, ma anche il pianoforte il cui coperchio, sotto la pressione dei colpi, si rompe. L’azione va avanti, lenta rituale celebrativa. La musica di Palestine incalza, Shimamoto non scaglia con violenza le sue sfere di colore, basta l’altezza a far acquistare loro una potenza creativa che può essere distruttiva, si limita a farle cadere. Ma lo fa in una maniera non indifferente, non meramente funzionale. Le solleva, le mostra in una sorta di ostensione celebrativa e poi le affida alla caduta. Si respira, nell’azione, un che di cerimoniale, di sacrale che riconduce alla dimensione del teatro non solo perché siamo di fronte ad un evento spettacolarmente organizzato, ma perché richiama l’atto pubblico come rito sociale. Rito laico, ma pieno di ascendenze spirituali.
Questa duplice condizione teatrale, l’articolazione dell’atto in un evento più complesso dal punto di vista spettacolare e la sacralità di una celebrazione collettiva, sono presenti in tutti gli eventi spettacolari italiani, a volte fusi insieme a volte, in una qualche misura, isolati. E’ il caso quest’ultimo dell’azione del 2008 nei portici di Palazzo Ducale di Genova. Gli apparati spettacolari sono ridotti al minimo, giusto la presenza di un musicista che accompagna l’azione. La musica è sentita da Shimamoto come una componente fondamentale del suo lavoro e d’altronde, fin dagli anni cinquanta, lui stesso si è cimentato con sperimentazioni sonore. A parte la musica non c’è altro se non la grande tela bianca distesa per terra, vero e proprio spazio dell’azione, le bottiglie i bicchieri pieni di colore. Bottiglie e bicchieri, però, sono già posizionati sulla tela, perché così serve all’azione di dipingere ma anche perché così scrivono lo spazio ad un livello che possiamo riconoscere come scenografico. Shimamoto cammina dentro questa piccola foresta di colori, quando vuole agire un’assistente gli offre – come l’allievo di un maestro calligrafo – la bottiglia o il bicchiere che gli sembra il maestro richieda e l’azione comincia. Il lancio delle bottiglie, il bottle crash non ha però nulla a che vedere con quello che vediamo riprodotto nelle foto degli anni cinquanta. Shimamoto solleva a due mani la bottiglia, la presenta al pubblico e solo allora la lancia, con un gesto e un modo più dolci di allora. Il suo atto pittorico appare adesso come pacificato. Ricco di energia, certo, ma di un’energia morbida, delicata. E’ l’atto di un celebrante che affida più che mai all’arte un messaggio di pace.
Questo nuovo modo, tecnico ma non solo, di concepire il bottle crash, emerge particolarmente quando vengono lanciati i bicchieri di plastica. Per la levità del materiale di supporto, certo, ma anche per il gesto che è più misurato, contenuto, in un certo senso “mirato” verso zone specifiche della tela. Quella di Shimamoto diventa una danza mentre lancia i bicchieri che, disegnando una incerta traiettoria nell’aria, lasciano dietro di sé una scia di colore che resta per un attimo come sospesa a mezz’aria prima di espandersi, esplodendo, al suolo. L’idea di un segno di colore, di una scrittura del colore è, in questo caso, espressa veramente alla lettera. Prima di essere segno sulla superficie, il colore è segno nell’aria. Segno dell’azione, quindi, prima che segno della pittura.
Sempre di più la dinamica delle azioni di Shimamoto si sta definendo come un vero e proprio teatro del colore, in un’accezione del termine che mette in gioco il linguaggio della scena tanto quanto quello della pittura. Nelle azioni del 2008 alla Certosa di Capri e a Punta Campanella la dinamica teatrale si rivela con una evidenza se possibile ancora maggiore.
A Capri il segno più forte della teatralizzazione è rappresentato dallo spazio. Shimamoto dispone delle lunghe tele sui camminamenti del chiostro, realizzando così una sottolineatura della pianta architettonica del luogo. L’azione diventa un atto itinerante che l’artista compie “scrivendo” col bottle crash delle vere e proprie vie di colore, lungo le quali incontra dei performer con dei violoncelli che vengono coinvolti attivamente dentro l’azione pittorica. A Punta Campanella, invece, il dialogo scenico intessuto da Shimamoto e dai suoi “lanci” è con un gruppo di danzatrici in abito da sposa con la testa nascosta dentro sfere di bicchieri di plastica. Assieme a loro insistono nello spazio (con lo straordinario paesaggio naturale di sfondo e la tela, quadrata in questo caso, a fungere da palcoscenico) anche una Nike di Samotracia rossa e una Venere di Milo gialla, oggetti di scena ma anche personaggi. Il gesto di lanciare il colore è, in questo caso, più insistentemente rivolto agli interlocutori, animati e inanimati, dell’azione. Mentre le ragazze danzano (veri costumi viventi che tendono alla smaterializzazione del corpo), Shimamoto le accompagna e le tocca col colore facendone dei quadri animati.
In che termini è possibile parlare di queste azioni performative? A quale moderna identità di genere artistico è possibile fare riferimento? Sono indubbiamente il risultato di una pittura d’azione particolarmente articolata e sofisticata, ma sono anche, assolutamente, teatro, in un’accezione moderna, certo, ma precisa e tecnica. Parlerei, nel caso di Shimamoto, di una pittura che si fa drammaturgia, nel senso che il dato linguistico di partenza, la grammatica espressiva è quella del dipingere. Dipingere, però, come costituzione di un fatto rappresentativo. C’è, infatti, un’organizzazione spettacolare basata sul montaggio di segni diversi organizzati in un ordine costruttivo e formale (una drammaturgia); c’è un rapporto dialettico tra arti diverse; c’è una dialettica altrettanto forte con altri soggetti coinvolti nell’azione (le danzatrici di Punta Campanella ma anche i musicisti di Capri); c’è un intervento preciso e autoriale nell’uso dello spazio e del tempo; c’è, infine, anche il ricorso a effetti scenici, di cui la gru di Piazza Dante è l’esempio più evidente.
La pittura che si fa drammaturgia e quindi teatro è quanto ci ha spinto a parlare di teatro del colore, termine sul cui significato è utile fare un’ultima, conclusiva riflessione. Il termine, infatti, entra in una maniera a volte esplicita, altre implicita nelle vicende del teatro contemporaneo. Lo utilizza, infatti, proprio all’inizio del Novecento, Achille Ricciardi, figura importante di sperimentatore troppo spesso trascurata (anche a causa di una morte molto prematura). Del suo progetto teorico non si può, in questa sede, che dare pochi elementi, che risulteranno utili, però, ai fini del nostro discorso. Ricciardi voleva proporre una rilettura dell’opera d’arte totale di Wagner, mettendone in discussione la sua santa trinità: musica, poesia e danza. Riteneva, infatti, che musica e poesia finissero inevitabilmente per collidere tra loro, limitando, anziché accrescere, la loro portata. Ipotizzava, quindi, che la valenza di voce del profondo che Wagner affidava alla musica andasse affidata, invece, al colore, che poteva meglio aderire al dato verbale, riuscendo a riqualificarne le ascendenze simboliche e spirituali. Questo scriveva nel 1906, tentando con l’aiuto di Prampolini nel 1920 un esperimento scenico che risultò, come spesso accade in questi casi, al di sotto delle attese.
Nel 1913, pur senza nominarlo quale teatro del colore in termini così espliciti come fatto da Ricciardi, Kandinskij scrive una partitura scenica, Il suono giallo, che rappresenta una straordinaria ipotesi di teatro del movimento visivo, affidato nella sua gran parte al colore, che vi compariva nella veste più convenzionale dei fondali, ma anche della luce, dei costumi e del trucco. Il suono giallo è, per molti versi, una vera e propria drammatizzazione del colore. Kandinskij, che pure aveva in cuore di farlo, non riuscì a portarlo in scena (ci fu la guerra di mezzo e poi non ci pensò più) ma anche nel suo caso c’è un testo teorico che aiuta a comprendere la sua intenzione teatrale. In Sulla composizione scenica, infatti, Kandinskij ragiona delle condizioni per una possibile e necessaria riforma del teatro. Anche nel suo caso è cruciale partire dalla Gesamtkunstwerk per superarla. Stavolta, però, non è la musica ad essere messa da parte, ma la poesia, così che l’opera d’arte totale ideale finisce per essere composta di movimento, suono e colore.
In entrambi i casi ciò che emerge è la pulsione, tipica del Novecento, a superare la sintesi dei linguaggi di matrice wagneriana in una direzione visiva. E’ un fenomeno – che coinvolge personaggi della statura di Appia e Craig – troppo ampio e complesso perché se ne possa parlare in questa sede ma cui è utile, comunque, in conclusione fare riferimento perché mi sembra che il caso di Shimamoto vi aderisca pienamente. Il suo teatro del colore, aspirando ad una totalità della pratica artistica ma anche dell’esperienza umana, si presenta come una delle forme più intense e vive della moderna Gesamtkunstwerk, corrispondendo perfettamente ad un’idea di opera d’arte totale in cui si sintetizzano la pittura e il teatro, l’atto vitale e quello artistico, in cui come dice Angelo Trimarco, «confluiscono l’anima e la forma, il linguaggio e la vita, il silenzio e la parola, l’attesa e la speranza».
Lorenzo Mango