Andare verso Oriente è stata una costante della cultura occidentale almeno dall’Illuminismo, cioè dal periodo nel quale il ‘trionfo della ragione’ avrebbe dovuto mettere totalmente da parte le ragioni diverse. Un “andare verso” che ha portato a molte incomprensioni ma al tempo stesso ha consentito alla cultura dell’Occidente di oltrepassare i propri confini ‘razionali’ arricchendosi e articolandosi. Oggi che il rapporto tra Oriente e Occidente non è solo un dato di fatto ma anche una ineluttabile conseguenza del mercato globale è il rapporto tra le culture che resta un momento ‘alto’ di crescita e confronto per entrambi i poli. Quando, nel 1954, fu fondato in Giappone il gruppo Gutai, questo implicò non una vittoria dell’Occidente ma l’aprirsi di una dialettica più ricca, profonda e complessa di quanto non fosse mai stata. Non a caso pochi anni dopo, quando nasce Fluxus, le tangenze tra i due movimenti sono colte e sottolineate da tutti. Le radici di Fluxus e Gutai sono molto diverse, ma entrambi portano un messaggio comune che – nei rispettivi contesti culturali – assume la stessa, deflagrante, portata. La polemica contro il pennello condotta da Shozo Shimamoto in una nazione che aveva fatto dell’uso magistrale di questo strumento l’obiettivo primario di ogni artista, il quale doveva identificarsi con esso in un venir meno della propria identità, attingendo così al massimo livello espressivo, avrà rappresentato uno strappo della tradizione certo molto maggiore di quanto non sia stato misurabile in Occidente; così come il farsi arte di un gesto, un silenzio, un’assenza o una polemica asserita da Fluxus è rimasta per anni, più che un provocatorio comportamento d’avanguardia, semplicemente un non-evento, non classificabile e perciò inesistente per il grande pubblico. Per Gutai l’arte dà vita alla materia, per Fluxus l’arte è la vita in tutte le sue espressioni, ma per entrambi l’arte scaturisce non da un livello superiore di abilità, intelligenza o interiorità ma semplicemente essa è qui, di immediata comprensione se si lascia da parte per un attimo la ‘coscienza infelice’ dell’uomo occidentale. Gli artisti presenti in mostra, come Shimamoto, Yasuo Sumi e Yozo Ukyta di Gutai e Ay-O e Nam June Paik di Fluxus, rappresentano la storia dell’avanguardia d’Oriente e Occidente, e, pur continuando oggi ad operare coerentemente con le loro premesse hanno, alcuni hanno per così dire passato il testimone ad una nuova generazione, secondo un rapporto da maestro ad allievo che tanto ha contato per i giapponesi, almeno nell’immaginario occidentale, nella trasmissione della conoscenza. Dal nostro punto di vista, la ricerca dei ‘padri’ degli artisti anche più intransigentemente ‘orfani’ è una delle attività della critica d’arte che più ha segnato la comprensione profonda anche di espressioni artistiche apparentemente impenetrabili, perché leggere l’oggi attraverso il passato – che, quando è strumento di critica e di conoscenza, non è mai davvero tale – è una esigenza che vivifica e amplifica il valore del legame tra passato e presente.
Angela Tecce