Una fresca sera di maggio del 1957 il Centro Sankei di Osaka accolse un evento inconsueto. Nella sala del teatro un gruppo di giovani artisti aveva organizzato uno strano spettacolo montando assieme una serie di azioni slegate le une dalle altre e difficilmente riconducibili ad una delle forme d’arte canoniche. Quei giovani artisti erano il gruppo Gutai (in giapponese “concretezza”), che, sotto la guida e l’insegnamento di Jiro Yoshihara, stava rivoluzionando bruscamente l’arte nipponica, facendola improvvisamente precipitare dentro il Moderno. Nel contempo dell’action painting di Jackson Pollock, che Yoshihara aveva avuto modo di vedere nel 1951, Gutai si lancia in una sperimentazione visiva e formale che, mettendo in discussione l’oggettualità dell’opera, la tecnica, la stessa codificazione dei generi, concentra nell’azione, nell’evento, nella bruciante impermanenza dell’attimo la dimensione espressiva dell’arte. Quando Allan Kaprow ricostruirà la memoria storica – lontana e recente – dell’Happening (che aveva debuttato come “genere nuovo” nel 1959) vi immetterà a pieno titolo quanto realizzato da Gutai con le sue estreme sperimentazioni.
Del gruppo faceva parte, fin dalla sua fondazione, Shozo Shimamoto. Interessato a rigenerare i codici artisti, Shimamoto, fin dai suoi esordi, si era rivolto a modalità espressive e tecniche radicali e minimaliste. Negli anni quaranta aveva realizzato la serie dei “buchi”, fogli di carta su cui agiva per sfregamento fino a lacerare la superficie lasciandola esposta come una ferita aperta. In occasione di “Gutai sulla scena”, invece, aveva realizzato un’azione violentemente distruttiva, infrangendo una serie di globi di vetro e rovesciando sulla scena una montagna di palline da ping pong che emergevano improvvisamente dal buio. Un paio di anni prima, era il 1955, aveva invece esposto una passerella sbilenca – dal titolo emblematico Prego passate sopra – su cui i visitatori erano invitati a transitare. Opera era l’atto compiuto nell’attraversarla, non la passerella in quanto oggetto.
Fin dai suoi esordi, dunque, Shimamoto assume un atteggiamento di radicale negazione della tradizione artistica. D’altronde, qual era la tradizione per un giovane giapponese “arrabbiato” del secondo dopoguerra? Difficile dirlo. Di certo non quella nazionale, per lo meno nella sua forma accademica, ma neanche le avanguardie occidentali che apparivano, ed erano, distanti. La tradizione, per Shimamoto, finiva così per coincidere con l’atto stesso del dipingere – in tutti i tempi e in tutte le latitudini – veicolato da equilibrio, rappresentazione, forma. Veicolato – così lo dichiara lui stesso in termini sintetici – dal pennello, immagine emblema di una tecnica tesa a valorizzare forma, composizione e descrizione rispetto all’espressione. Nel 1957 Shimamoto formulerà questa sua convinzione in un articolo/manifesto dal titolo emblematico, Per una messa al bando del pennello, in cui sostiene che la tecnica “tradizionale” (di tutte le tradizioni idealmente riunite nell’esempio del Rinascimento) ha finito per mortificare la qualità materiale e autonomamente espressiva del colore, piegandola a fini estranei alla sua natura. “Io credo – scriveva – che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello. Se in procinto di creare non si getta via il pennello non c’è speranza di emancipare le tinte”, che era, invece, quanto si riprometteva di fare dando al colore ciò che è del colore, vale a dire il suo essere cosa materiale della luce.
L’atto trasgressivo di Shimamoto, il tradimento verso tecnica e convenzioni poteva prendere strade totalmente eccentriche rispetto alla pittura, come abbiamo visto negli esempi appena citati, ma soprattutto diventò ipotesi di una nuova strategia della pratica pittorica, che si tradusse in una modalità di lavoro alternativa al pennello. Nel 1956, per la prima volta, Shimamoto compie l’azione di scagliare bottiglie riempite di colore su una tela. È un gesto che ripeterà infinite volte negli anni e che caratterizza tutt’oggi l’atto del suo “dipingere”. Con quel gesto Shimamoto reagiva a tutte le forme possibili di pittura, a tutti i modelli costruiti di forma. Lanciare le bottiglie di colore e farle esplodere contro la superficie di una tela distesa a terra, il “bottle crash”, determina una situazione imprevedibile, un evento di cui si può dirigere, progettare, meditare e finanche pianificare l’impostazione, ma che poi, nel momento del suo accadere, è totalmente libero.
Oltre all’insegnamento di Pollock, che sicuramente si sente, la tecnica del “bottle crash” ha anche una memoria più specificamente nazionale che è lo stesso Shimamoto a manifestare: la calligrafia zen e, in particolare, quella di un grande maestro del XIX secolo Nantenbo. “La cosa che mi stupiva molto quando andavo a vedere questo maestro – scrive – era il fatto che usasse un pennello molto grande e con esso facesse lavori enormi rispetto a quelli eseguiti dai maestri calligrafi della sua epoca”. Nantenbo, insomma, appare agli occhi di Shimamoto grande nella sua capacità di aderire alla tradizione della scrittura rituale dello zen e nel coraggio di “tradirla” per forza espressiva ed eccezionalità del tratto. Nei caratteri del maestro “si trovavano sbavature, sbiadimenti, spruzzi, gocciolature e altri effetti che non erano esprimibili con la pittura ad olio di quel tempo”. Il “bottle crash” ha la stessa azione trasgressiva rispetto al codice pittorico, non vuole irriderlo o sminuirlo ma, come accade nelle calligrafie di Nantenbo, rigenerarlo attraverso il caso e l’impermanenza.
Il lancio delle bottiglie colorate è quanto più facilmente rende riconoscibile Shimamoto. Tecnica e segno di stile, attraverso di esso passa non solo la vocazione pittorica al colore di Shimamoto ma la sua stessa evoluzione di artista. I primi “lanci”, negli anni cinquanta, erano energicamente impulsivi, carichi della rabbia di una generazione (come erano i giovani giapponesi del secondo dopoguerra) priva di punti di riferimento e irrimediabilmente ferita nella sua memoria e nella sua identità. A Shimamoto interessava certo il caso, la possibilità che il colore agisse direttamente sulla tela senza filtri, che egli stesso concorresse con tutto il suo corpo alla creazione dell’opera, ma indubbiamente c’è un che di irruento e nervoso nel giovane “lanciatore” che vediamo al lavoro nelle foto dell’epoca. Un che di tragico, di terribilmente irrimediabile.
Pur restando fondamentalmente lo stesso, quanto a tecnica, il “bottle crash” però è negli anni profondamente cambiato, arricchendosi di implicazioni filosofiche e maturando sul piano della resa artistica. È come se Shimamoto avesse via via sviluppato una maggiore e più sottile consapevolezza di ciò che l’azione libera del colore può produrre su di un piano esistenziale, se non addirittura filosofico. L’esplosione della materia colorata diventa, nelle sue mani, un veicolo privilegiato dell’energia profonda che lega l’essere umano al cosmo. Diventa abbraccio e testimonianza ad un tempo. Gesto forte, anche violento se si vuole, e contemporaneamente slancio di felicità, esuberante e vitale. Metafora stessa della vita in quanto tale, del suo nascere come cosa esplosivamente ricca in un mondo che ingrigisce e si spegne nella cupa negazione di sé. Il monumento alla pace di Hyogo è emblematico. Ogni anno Shimamoto rigenera di colore una pedana di cemento a condizione che il Giappone, in quell’anno, non sia stato coinvolto a nessun titolo in una guerra. Lanciare il colore è sancire la pace e d’altronde la grande performance tenuta a Napoli nel 2006 aveva un titolo che la dice lunga: Un’arma per la pace. Quell’azione ci consente di passare al secondo aspetto delle trasformazioni incorse al “bottle crash”. Quella che era nata come una tecnica trasgressiva di produrre quadri è diventata, a tutti gli effetti, un momento spettacolare autonomo, se non addirittura un vero e proprio evento di teatro, arricchendosi sia al livello del contesto che nella modalità stessa del lancio delle bottiglie. Questo non è più un gesto d’impulso ma è organizzato come un atto rituale e celebrativo, addolcito per certi versi ma pur sempre intenso sul piano dell’espressività dell’azione. A dilatarne la portata, spesso Shimamoto (come nel caso dell’evento napoletano) lo compie sospeso ad un’alta gru, così da avere sotto di sé una immensa tela da dipingere ma, soprattutto, l’orizzonte del mondo. L’azione del “bottle crash”, poi, si può combinare con la presenza di altri interpreti o di oggetti, su cui il colore va ad incidere, lanciato magari più delicatamente con leggeri bicchieri di carta che planano su corpi, tela e cose determinando una sorta di coreografia di colori. La quale si collega, altrettanto spesso, a un momento musicale chiamato a interloquire con l’azione.
Si determina, così, un evento spettacolare autonomo ed autosufficiente rispetto all’originale dimensione pittorica la quale, d’altro canto, non si perde: né nel risultato – perché da quell’azione risulteranno comunque dei quadri – ma neanche nell’intenzione, nel senso che è più corretto parlare di un’esaltazione spettacolare dell’atto del dipingere che ritenere le opere una sorta di lascito involontario e residuale di una performance. Vedere Shimamoto durante uno di questi eventi è, letteralmente, vedere un pittore al lavoro, tutto proteso a combinare caso e intenzione, accidente e forma. Al tempo stesso presenziare a uno dei suoi ultimi eventi – molti dei quali sono stati italiani come quello a Venezia nel 2007 o a Capri e Punta Campanella nel 2008, oltre a quello di Piazza Dante a Napoli citato in precedenza – significa essere immersi, per utilizzare un’espressione usata all’inizio del Novecento da Achille Ricciardi e riferibile anche ai progetti spettacolari di Kandinskij, in un moderno “teatro del colore”, dove la materia pittorica si fa attrice dell’evento in prima persona.
Scena e pittura diventano così – come era già per molti versi in quel lontano 1957 – segni, modalità di lavoro, tecniche anche, che dialogano fra loro mettendo il lavoro del pittore in equilibrio sul filo dell’azzardo tra processo e prodotto, lì dove ciò che conta è l’atto come fatto fisico ma anche come azione morale, corpo ma anche segno, performatività ma anche forma. Teatro, infine, ma ancora e sempre pittura.
Lorenzo Mango