Quando, alla fine degli anni quaranta, Shozo Shimamoto avvia la sua attività di pittore la situazione del Giappone, sia dal punto di vista storico politico che da quello artistico e culturale, è delicata e cruciale. La disfatta della Seconda Guerra Mondiale e la tragedia atomica hanno segnato profondamente la identità del Paese, ma, d’altro canto, la nuova situazione che si è venuta a creare ha determinato la fine del suo storico isolamento. Se da un lato, insomma, c’è la percezione di un disastro da cui sembra impossibile riuscire a riemergere, da un altro c’è la sensazione della necessità di un cambiamento che vada a modificare gli assetti di una società fondamentalmente e profondamente conservatrice.
Sul piano artistico la situazione è, per molti versi, analoga. La nascita dell’Associazione degli artisti indipendenti (Demokurato Bijutsuku Kyokai), la mostra organizzata dal giornale “Yomiuri” nel 1949 rappresentano indizi significativi dell’esigenza di avviare un nuovo corso nella vicenda artistica del Giappone. Fenomeno, d’altronde, di cui si trovano importanti riscontri anche nell’ambito delle altre arti; nel teatro e nella danza, ad esempio, con la nascita del Butoh ad opera di Kazuo Ohno. Si tratta, in sostanza, di abbandonare gli schemi istituzionali ed accademici che dominano la scena artistica nazionale aprendosi a scenari nuovi che trovano soprattutto nel confronto con le avanguardie europee il loro punto di riferimento.
Il problema è quello del confronto col Modernismo e, contemporaneamente, del suo superamento. D’altronde il rapporto con le vicende artistiche europee – astrazione e Surrealismo in testa – non è una cosa nuova. Già negli anni trenta erano nati gruppi di artisti – come l’Associazione degli artisti liberi (Jiyu Bijutsuku Kyokai) e l’Associazione arte e cultura (Bijutsu Bunka Kyokai) – orientati in tal senso. Il periodo del secondo dopoguerra vede da un lato accelerare questo fenomeno, da un altro superare una certa condizione epigonica che aveva caratterizzato le esperienze precedenti. Ciò che gli artisti giapponesi cominciano a porsi è il problema di costituirsi una propria specifica identità che nasca dal confronto dialettico con il modello europeo ma cerchi anche di non farsene schiacciare. Gutai è il movimento artistico che più e meglio di altri rappresenta questa esigenza. “L’arte del passato ormai ci appare come un inganno ricoperto d’apparenze con pretese di significato” scrive Jiro Yoshihara, leader e fondatore del gruppo, nel Manifesto dell’arte Gutai del 1956. È un proclama di autonomia e indipendenza che fa appello ad una totale libertà nell’approccio al problema dell’arte; ma, contemporaneamente, è un’affermazione che ricorda molto da vicino le dichiarazioni più violente ed estreme dell’avanguardismo europeo e soprattutto di Dada che, per il suo radicalismo, diventa il nuovo riferimento elettivo dei più avanzati artisti nipponici.
La questione della identità, insomma, pur nascendo in nome di una scelta di autonomia ed indipendenza, si presenta, in primo luogo, nei termini del confronto con le avanguardie europee del primo Novecento. Significativamente, nel prosieguo del suo manifesto, Yoshihara afferma la sua scelta di novità come distinguo rispetto ad un passato remoto, rappresentato dal Rinascimento, e da uno recente, individuato nel pointillisme o nel fauvismo. A prescindere dal fatto che suona strano, nel pieno degli anni cinquanta, sentir dichiarare la differenza con fenomeni artistici che datano, oramai almeno cinquant’anni; ancora più strano e significativo è il rimando di Yoshihara al Rinascimento. Cosa è il Rinascimento per lui o lui per il Rinascimento, verrebbe da dire parafrasando Amleto, perché debba distinguersene? È evidente come la questione non sia se, e quanto, la nostra pittura “classica” abbia influenzato quella giapponese, ma notare come, nel processo di affermazione di sé come forza nuova della scena artistica, Yoshihara si esprima come potrebbe esprimersi un artista europeo di quarant’anni prima. Yoshihara è arretrato? Non stiamo dicendo questo e la sua vicenda artistica sta lì a dimostrarlo; stiamo solo sottolineando come il processo di dialettica con la storia, che caratterizza le diverse forme dell’avanguardia, anche in Giappone – cioè in una posizione geograficamente e culturalmente decentrata – viva in rapporto col modello europeo di inizio Novecento. Tesi questa confermata da quanto scrive Shimamoto in uno dei suoi scritti teorici più significativi, dove parla del suo rapporto col colore come di qualcosa che si distingue nettamente da quanto fatto da Leonardo, Poussin, Rembrandt, Van Gogh, Utrillo, Dalì. La tradizione da cui Yoshihara, Shimamoto e gli altri avanguardisti che si riuniranno nel gruppo Gutai vogliono prendere le distanze è, dunque, una tradizione dalla forte matrice europea.
Avere ben presente questo scenario culturale è fondamentale almeno per due ragioni: rivela come il Giappone avvii il processo di rifondazione della sua identità artistica partendo da una “tradizione del nuovo” che è fondamentalmente estranea alla sua storia e mostra come, a partire dagli anni cinquanta, si avvii un processo di internazionalizzazione dell’arte contemporanea che mette in gioco l’oriente attraverso il Giappone e l’occidente attraverso gli Stati Uniti. Questa internazionalizzazione – in cui si possono leggere i vagiti della moderna globalizzazione – non nasce da uno scambio alla pari tra identità e storie diverse, ma come una sorta di processo di omogeneizzazione culturale, che si traduce in un linguaggio a suo modo “universale” che si colora di toni e di modi locali e nazionali pur senza perdere la sua matrice originaria. È tutt’altro che un caso se, considerando gli anni cinquanta, si assista contemporaneamente all’affermazione degli Stati Uniti come nuova nazione guida della ricerca artistica (si pensi all’action painting prima e all’Happening e alla Pop art poi) ed alla nascita in Giappone proprio di Gutai. È un fenomeno che sta lì a significare come la rifondazione dell’estetica propugnata dalle avanguardie storiche abbia superato i suoi confini originari e come, ancor di più, la nozione occidentale di arte sia andata ad influenzare anche territori che le sono geograficamente e culturalmente estranei. Se tale processo, sul territorio americano, avviene all’interno di un substrato culturale ed etnico comune a quello europeo (così da non stupirci più di tanto), ben diversa è la situazione giapponese. Si tratta, infatti, di un processo complesso e variegato (che abbisognerebbe di uno studio particolare ed approfondito) di cui, in questa sede, ci interessa solo segnalare l’importanza ai fini della comprensione della vicenda artistica di Shimamoto.
Fondamentale, ai fini della sua formazione, è l’incontro con Yoshihara. Questi è un maestro del tutto particolare. Non vuole una scuola, non cerca uno stile, intende, invece, essere l’occasione per la liberazione creativa dei suoi allievi. Questa attitudine – che è impregnata della nozione di maestro della filosofia zen – si traduce nell’aspirazione a fare della creazione artistica qualcosa di assolutamente nuovo. Formatosi alla scuola di Tsuguharu Fujita, attraverso cui era entrato in contatto con l’avanguardismo europeo, Yoshihara guardava, però, con grande attenzione da un lato alle proposte più nuove che arrivavano da oltre oceano, dall’altro ai movimenti che avevano a cuore la rifondazione delle forme espressive più tipicamente giapponesi. Quando, nel 1951, vede alla “Esposizione di arte internazionale”, le opere di Jackson Pollock ne è profondamente impressionato ed è tra i pochissimi a cogliere la forza e la novità della proposta dell’artista americano. D’altro canto si lega al movimento di calligrafia d’avanguardia Bokujin-kai che si riproponeva il rinnovamento di una delle più significative forme di arte giapponese. Grazie alla varietà e alla complessità dei suoi interessi Yoshihara diventa, così, una figura cruciale nell’arte giapponese del secondo dopoguerra: propone, infatti, una risposta forte ed incisiva alle provocazioni dell’arte europea ed americana, legandola a motivi e modi di essere che sono specifici e propri della cultura del Giappone. L’idea di creare un ponte culturale, un luogo di sintesi tra due modelli artistici così distanti per trarne un altro, radicalmente diverso da entrambi i precedenti (pur se ad essi, per molti aspetti, intimamente legato), è alla base del suo progetto per Gutai, che ne fa un episodio unico nel panorama artistico internazionale.
Fondandolo nel 1954, Yoshihara unisce attorno a sé alcuni tra i più radicali e promettenti artisti giapponesi, alcuni dei quali provenivano dal Gruppo Zero, altri dal Genbi, il “Gruppo di discussione per l’arte contemporanea”, l’associazione di cui Yoshihara era tra i fondatori e in cui convergevano sperimentazione pittorica e pratiche tradizionali come l’ikebana e la calligrafia. Si tratta di due esperienze dalle caratteristiche profondamente diverse che andranno a fondersi nella poetica di Gutai: il Gruppo Zero, infatti, sperimentava soluzioni espressive tese ad azzerare il piano espressivo e semantico dell’arte attraverso la negazione radicale della forma pittorica e della tecnica, gli artisti di Genbi, invece, forzavano dall’interno la pittura, cercando di disarticolarne gli statuti e gli assetti formali. Il motto di Yoshihara era: andare oltre Mondrian, l’artista che così tanto lo aveva influenzato durante la sua giovinezza. Andare oltre Mondrian significava, ad un tempo, negare ed assimilare la grande lezione dell’astrattismo europeo. Ma a cosa poteva portare questo superamento? Gutai è la risposta di Yoshihara. Non solo la sua, ovviamente, in quanto si tratta di un gruppo composto da tante distinte individualità che non cercano una comunione di stile e, in fondo, nemmeno di poetica (intesa in un senso strettamente ideologico) così che la sua proposta estetica è composita e varia. In essa si combinano le due tendenze che Yoshihara voleva mettere assieme: la dissoluzione del codice artistico e la sua rielaborazione in una chiave pittorica diversa.
Fin da subito Gutai mostrerà di seguire entrambe le direzioni di lavoro, facendole convivere in una dialettica aperta e problematica in cui è difficile orientarsi se si cerca di ricondurne la varietà dentro una linea progettuale univoca, ipotizzando la quale si finisce, oltretutto, per impoverire e fraintendere ciò che Gutai è stato. È più saggio, invece, e per molti aspetti inevitabile, accettare la polifonia dell’esperienza di Gutai, il suo essere, contemporaneamente, molte cose diverse: alcune delle quali anticipano gli sviluppi dell’arte internazionale, altre, invece, nutrono verso di essa debiti evidenti.
Gutai nasce, dunque, sulla base della tesi di un rinnovamento radicale e totale e resterà attivo fino al 1972 quando, alla morte di Yoshihara, gli altri componenti decideranno che, in assenza del loro leader, era impossibile proseguire collettivamente nel lavoro, avviandosi ognuno lungo un percorso individuale. Shimamoto è nel gruppo iniziale e accompagnerà Gutai per tutto il suo percorso, partecipando a tutte le mostre collettive e ospitandone nel suo studio la sede. Per molti versi se, come vedremo, Gutai è stato quasi più un modo di “essere nell’arte” e di praticarne il linguaggio che non una corrente artistica, possiamo dire che Shimamoto non ha cessato mai, e non cessa tutt’ora, di essere Gutai. Lo stesso nome Gutai, d’altronde, fu lui a suggerirlo a Yoshihara, che lo adottò con entusiasmo in quanto gli sembrava corrispondere bene a quanto aveva in mente.
Gutai significa, infatti, in giapponese concretezza, un termine scelto appositamente a segnalare la distanza dalla dimensione dell’astrazione. Già il nome ci introduce nell’orizzonte poetico di Gutai. Il problema che Yoshihara e i suoi compagni si pongono non è di opporre alla soluzione formale dell’astrazione una ipotesi diversa di matrice altrettanto formale, quanto di agire sul piano di un ripensamento concettuale dell’atto stesso del fare arte. Essere concreti vuol dire, per Gutai, guardare alla “cosa in sé” dell’arte, alla sua natura fisica ed immanente. Legare la pratica estetica ed il risultato formale al rapporto che lega artista, materia ed opera. L’opera stessa interessa agli artisti Gutai anzitutto come costruzione dell’opera. Si tratta di un atteggiamento che si trova lungo tutto l’arco di attività del gruppo ma che risulta particolarmente esplosivo nei suoi primi anni di attività, fino al 1958, quando, in parte per l’incontro con Michel Tapié (che introdurrà il gruppo nel circuito dell’arte occidentale, legandolo però ad una estetica dell’Informale che solo parzialmente gli corrispondeva), in parte per una naturale trasformazione della propria proposta artistica, in parte per l’esigenza di affidare il proprio lavoro ad una serie di importanti mostre internazionali lontano dal Giappone, gli artisti sembrano concentrarsi maggiormente nella produzione di quadri. Anche allora, però, sarebbe riduttivo fermarsi solo all’esito finale e formale dell’operazione artistica – la tela dipinta – in quanto il processo generativo dell’opera continua ad avere una sua centralità, magari meno manifesta e pubblica ma non meno significativa.
Il primo “atto pubblico” di Gutai è emblematico del progetto di Yoshihara: è la pubblicazione della rivista “Gutai” prima ancora che abbia avuto luogo una qualche forma espositiva riconducibile a quella sigla. Con la rivista, che verrà pubblicata fino al 1965, Gutai si ripropone di lanciare subito il suo messaggio esplosivo nel mondo dell’arte. Pur se scritta in giapponese presenta, infatti, delle parti in inglese e propone le immagini dei lavori che gli artisti stanno realizzando in quei primi anni cinquanta. Manca, invece, una formulazione teorica di stampo avanguardistico, in veste di Manifesto, che Yoshihara pubblicherà solo più tardi, nel 1956. Cosa capiva chi avesse avuto tra le mani il primo, o comunque i primi numeri di “Gutai”? Che esisteva un gruppo di giovani artisti giapponesi interessati, nelle più diverse forme, a rimettere in discussione la nozione di arte e che tale rimessa in gioco avveniva su piani diversi, come una sorta di proposta polifonica e corale. Non c’era, insomma, l’idea che quel gruppo di artisti dovesse muoversi lungo una linea direttrice comune ed ordita a priori. D’altro canto, però, si evidenziava con forza che quegli artisti si riconoscevano in un gruppo e che il gruppo, anzi, contava anche più delle singole individualità. Gutai non è solo un termine di riferimento, è la sigla di una identità. “Noi ci auguriamo di portare in una maniera concreta la prova che i nostri spiriti sono liberi – scriveva Yoshihara – Siamo costantemente alla ricerca di impulsi nuovi che cerchiamo in tutte le forme plastiche esistenti”. “Gutai” rappresenta una sorta di messaggio nella bottiglia lanciato a tutto il mondo: in Giappone, lontano da tutto e da tutti, c’è un gruppo di artisti che si ripropone di far esplodere l’arte, di ricominciare da zero, di rimettere in discussione ogni forma di tradizione, la propria tanto quella che viene dall’Europa. Questo messaggio non era destinato tanto o solo al pubblico giapponese, quanto a quello internazionale. “Gutai” viaggia, la sua funzione, ricorderà anni dopo Shimamoto, era quella di essere una sorta di esperimento di Mail art, di arte postale ante litteram. Doveva giungere fin dentro la casa lontana dell’avanguardia. Michel Tapié fu indotto ad intraprendere il suo viaggio in Giappone, nel 1957, dopo aver visto la rivista, che fu trovata, significativamente, alla sua morte, nello studio di Pollock.
L’idea iniziale di Gutai fu, dunque, quella di dar vita ad un movimento che fosse di gruppo, pur senza rifarsi ad una estetica predefinita, di riunirsi in una sorta di vera e propria tribù sperimentale. “Mai imitare” e “Create ciò che non è mai esistito prima” erano gli insegnamenti che Yoshihara affidava ai suoi discepoli ed essi li assumevano alla lettera, facendo della ricerca sperimentale il loro credo comune. Sperimentare significava, allora, abbandonare il terreno conosciuto dell’arte e cercare soluzioni formali e linguistiche assolutamente nuove ed inedite. Le prime mostre collettive sono emblematiche in tal senso. Nel luglio del 1955 ha luogo, presso il parco della città di Ashiya la “Esposizione d’arte moderna all’aperto: sfida al sole di mezza estate”, riproposta anche un anno dopo col titolo: “Seconda esposizione Gutai all’aperto”. Si tratta di due mostre particolari ed innovative. Non la collazione di opere preesistenti da immettere nel contesto non abituale di un parco pubblico, ma una sorta di progetto collettivo di intervento creativo su di un luogo fisico preesistente. Qualcosa che sembra anticipare la dimensione dell’Happening, della Land art o dell’Arte ambientale ma recupera e rilancia anche l’idea che era stata alla base di alcune delle famose mostre dadaiste e surrealiste. Shimamoto, in quelle occasioni, presentò due lavori particolarmente significativi: quello del 1955 consisteva in una lastra di metallo traforata da una fitta rete di buchi; nel 1956, invece, realizzò una sorta di piccolo camminamento fatto di gradini posti in equilibrio precario sul quale lo spettatore era invitato a salire (l’opera si intitolava: “Prego, camminate sopra” ). Si tratta di due opere il cui intento primario era quello di instaurare un colloquio, un dialogo: con l’ambiente circostante, nel primo caso, con lo spettatore nel secondo. La lastra di metallo, infatti, stava lì a significare un intervento sul paesaggio, sia perché vi si stagliava all’interno in maniera visibile, sia perché i buchi (su cui in quegli anni Shimamoto sta lavorando anche su di un piano più strettamente pittorico) determinano una soglia, un passaggio percettivo, una sorta di filtro spaziale per lo sguardo. “Prego camminate sopra” è, invece, un vero e proprio intervento di tipo enviromentale, che suscita una reazione di tipo performativo da parte dello spettatore. L’opera, infatti, agisce come un elemento provocatore: inerte fino a che il passante non la attraversa, diventa attiva quando vi sale sopra. Allora l’instabilità dei gradini determina uno scambio percettivo di tipo tattile con il fruitore in quanto, incrinando il suo equilibrio, ne mette in discussione andatura e postura.
Quella di Shimamoto non fu, nelle due mostre, l’unico intervento orientato in tal senso. Si può dire, anzi, che il complesso dei lavori presentati in mostra fossero ispirati ad una simile filosofia. Nella esposizione del 1956, ad esempio, Sadamasa Motonoga aveva steso tra gli alberi dei grandi fogli di poliuretano riempendoli di colore. I raggi del sole, colpendo le sacche di colore, le trasformavano in vere e proprie fonti luminose.
Michio Yoshihara (figlio di Jiro) aveva, invece, scavato un buco nel terreno dove aveva, poi, inserito un cubo di materiale plastico illuminato dall’interno. Saburō Murakami, infine, aveva esposto un grande tubo metallico, posto verticalmente, invitando il pubblico a guardarvi dentro per vedere il cielo (“Cielo” era, tautologicamente il titolo del suo intervento, tautologia presente, in una qualche misura, anche nel titolo che Shimamoto aveva scelto per la sua passerella: “Prego camminate sopra”).
Le due mostre nel parco di Ashiya nascono in sostanza, dunque, come una sorta di esercizio di gruppo sul tema dell’intervento ambientale. Esperienza che viene, poi, declinata individualmente da ogni singolo partecipante ma che appartiene decisamente ad un sentire progettuale comune: fare dell’arte un veicolo di esperienza diretta; trasformare l’opera in un segno che agisce da catalizzatore rispetto ad un luogo e rispetto al fruitore. Sostanzialmente porre al centro dell’esperienza artistica l’azione e l’evento, depotenziando, fin quasi ad azzerarla, la qualità oggettuale dell’opera d’arte.
Si tratta di un atteggiamento nei confronti del processo creativo debitore, per molti aspetti, nei confronti di Pollock. Ciò che dell’artista americano aveva colpito Yoshihara, quando ne aveva conosciuto il lavoro, era stato non solo la qualità pittorica ed emozionale dei suoi quadri, ma il procedimento gestuale, la dinamica creativa (così particolare ed eterodossa) che a quei risultati aveva condotto. Gutai, indubbiamente, si muoveva lungo la direttrice aperta da Pollock ma ne modificava e sviluppava gli assunti. Nella sua prima fase, quella che giunge fino al 1958, dà luogo, infatti ad una serie di interventi che da un lato accentuano l’autonomia del fatto performativo, da un altro determinano un particolare rapporto tra azione dell’artista e risultato pittorico. “L’arte Gutai sulla scena”, realizzato in due occasioni, nel 1957 e nel 1958, è forse la testimonianza più eclatante della prima direttrice di ricerca. Si tratta di due veri e propri eventi spettacolari, dalla esplicita matrice teatrale, che gli artisti di Gutai realizzarono sul palcoscenico del Centro Sankei di Osaka, il primo anno, e su quello del Centro Asahi, sempre ad Osaka, il secondo. In entrambi i casi gli artisti realizzarono delle azioni che determinavano una particolare atmosfera di tipo teatrale, nel senso che agivano creativamente su tempo, spazio, azione e rapporto con il pubblico. Non si trattava, insomma, di determinare una particolare condizione di creazione del quadro, come nell’action painting, ma di dar vita ad eventi risolti in se stessi, che si consumavano nell’atto stesso del loro manifestarsi pubblico. Scriveva Yoshihara, introducendo la prima delle due manifestazioni: “Si tratta di sfuggire un attimo alla concezione tradizionale delle belle arti per confrontarsi autonomamente con quello spazio artistico peculiare che è il teatro, con il suo modo di operare, vale a dire con suoni, luci, temporalità”. Quando, nel 1966, Allan Kaprow tentò una sistematizzazione dell’Happening nel suo Assemblage, Environments & Happenings notò, molto opportunamente, che gli eventi spettacolari di Gutai andavano considerati a tutti gli effetti come delle anticipazioni di quel fenomeno. Come quello, infatti, erano dei prodotti artistici anomali, che mettevano in gioco lo spazio ed il tempo nella forma primaria dell’occupazione di un luogo con un’azione, affidando indiscriminatamente ad attori ed oggetti il ruolo di protagonisti. Così facendo da un lato contraddicevano la nozione di opera intesa come manufatto estetico, da un altro disegnavano una idea di teatro radicalmente nuova, che non si basava più sulla diegesi narrativa e sulla dimensione rappresentativa ma che, seguendo l’insegnamento di Cage, si proponeva come atto puro, semplice e diretta animazione dello spazio-tempo.
L’altra direttrice di ricerca – che lega azione e realizzazione di un’opera pittorica – è quella che ebbe maggior diffusione all’interno del gruppo. Gli artisti Gutai, anche se si cimentavano con la performance, non smisero mai di dipingere. Ma la pittura entrava a far parte di un gioco creativo al cui centro si stagliava l’azione. È senz’altro questa la dimensione più pollockiana del loro lavoro ed è quella che più interessò Tapié e che più il critico francese valorizzò. Gli apparve infatti, quando con George Mathieu si recò in Giappone, straordinariamente in sintonia con i procedimenti espressivi che caratterizzavano l’Informale, tanto che non esitò ad assimilare il gruppo a quella “tendenza-non tendenza”, a quella proposta “altra” che per lui rappresentava il rilancio dell’arte contemporanea dopo da cesura della guerra. Il rapporto che legò Tapié a Gutai è un fenomeno complesso e problematico, su cui molto si è scritto e su cui molto, probabilmente, occorrerebbe ancora riflettere. Se, indubbiamente, il suo filtro critico fece sì che Gutai fosse recepito in occidente – in maniera limitata – come un aspetto dell’espressionismo astratto è, però, vero, che senza il suo sostegno e la sua valorizzazione (quantunque parziale) Gutai forse non sarebbe riuscito a varcare i confini del Giappone e a diventare un fenomeno artistico dal respiro internazionale.
Non è questa la sede, però, per porre questo tipo di questioni. Interessa poco, in sostanza, valutare se e quanto Gutai sia stato un movimento pittorico o, ancora peggio, se Gutai, pur avendo intravisto la possibilità di un’arte senza l’arte (senza cioè la tecnica pittorica), non abbia avuto il coraggio di varcare definitivamente quella soglia, rimanendo, in una qualche misura, invischiato dentro le maglie dell’Informale. Simili considerazioni, che ancora oggi troppo spesso zavorrano il dibattito attorno a Gutai, sono legate ad una visione teleologica dell’arte dal sapore modernista, che appare oggi decisamente superata ed inadatta nel valutare storicamente il Novecento. Così, d’altronde, è sterile continuare ad interrogarsi su quanto Gutai possa essere stato epigonico rispetto a Pollock o anticipatore rispetto all’Happening. Sia nel primo come nell’altro caso, occorre guardare i fatti da una prospettiva diversa. Gutai non rappresenta una soluzione, né sul piano formale né su quello poetico, coerente. È, piuttosto, il luogo (un luogo mentale ed operativo ad un tempo) di uno sperimentare che vive di avanzamenti e ritorni; dell’abbandono del codice pittorico, ad esempio, e dell’impossibilità di negarlo. Molto correttamente alcuni critici sottolineano come in Gutai si presentino già i primi segnali di un certo concettualismo, di una certa performatività. Anche in questo caso, ciò accade per la tensione sperimentale che anima il gruppo. Sperimentare è, per Gutai, affrontare argomenti nuovi, penetrarvi dentro e poi, magari, abbandonarli. In questo senso la sua posizione, dal punto di vista storico, è cruciale: perché vi si incrocia quanto è già accaduto o sta accadendo altrove (ad esempio l’action painting) con quanto è ancora di là da venire (Concettualismo ed Happening compreso). Come nel primo caso è assolutamente limitante parlare di epigonismo, così nell’altro è ingenuo voler attribuire a Gutai l’invenzione di quanto sta per accadere. Cosa succede, allora? Che la vocazione sperimentale di un gruppo – che fonda i suoi presupposti su un’alterità geografica oltre che culturale rispetto alla tradizione moderna occidentale – è quanto gli consente di praticare opzioni diverse, senza, per questo, averle assunte come propria, esplicita, dichiarazione di poetica. Gutai allora, per tornare su uno dei nostri esempi, non “inventa” l’Happening, come, d’altronde, non lo aveva inventato neanche Cage nel suo famoso evento al Black Mountain College nel 1952. Perché l’Happening esista, in quanto tale, è necessario quel processo di elaborazione critico-teorica, che affianca i dati di fatto estetici, che apparirà a New York alla fine degli anni cinquanta grazie a Kaprow. Ciò che appartiene a Gutai, invece, è la capacità di avviare un processo, di spostare degli equilibri, ed in particolare quello che lega e distingue processo e prodotto nei meccanismi della creazione artistica. Questa “azione estetica” è parte fondamentale di un processo culturale più ampio e complesso su cui nessuno può pretendere di far valere la propria paternità. Dal punto di vista storico, così, diventa interessante non tanto individuare ciò che è avvenuto prima o ciò che è avvenuto dopo, quanto considerare lo snodo fondamentale degli anni cinquanta nel suo complesso, all’interno del quale, in tempi, modi e luoghi diversi, si assiste all’avviarsi di quel processo di ridefinizione e rinominazione dell’arte, che vedrà il suo culmine nel decennio successivo. Tale processo non è unitario ma appare straordinariamente composito e non si può trattarlo criticamente in termini di dialettica hegeliana, come il progressivo superamento della “cosa” dell’arte, dell’opera. Opera ed evento, in quel contesto storico, sono parti di uno stesso processo di rimessa in discussione dei codici artistici. Se lungamente la negazione della pittura ci è apparsa come la soluzione più avanzata, oggi, a distanza di quaranta cinquant’anni, sappiamo che questo non è integralmente vero e che la forza dell’innovazione sperimentale dell’arte contemporanea consiste più nell’essere irriducibile ad uno schema categoriale certo che nel proporsi come fideistico superamento dello specifico artistico.
Il rapporto tra Gutai e la pittura va letto, dunque, in quest’ottica. Se, di certo, non ne risolve la esperienza artistica, non è nemmeno il suo aspetto più conservativo. Si tratta, invece, di una componente che convive con le altre – e le date stanno lì a dimostrarlo – in un complessivo e polimorfo sforzo di sperimentalismo e di invenzione creativa. Da questo punto di vista la mancanza di una linea progettuale univoca (come sarà poi per l’Happening, il Concettualismo, ecc.) è, forse, il dato che più rende ragione dell’unicità della sua esperienza artistica, facendone quasi il paradigma di una ricerca, quella dell’arte contemporanea, il cui obiettivo primario risiede, anzitutto, proprio nella ricerca in se stessa.
La vicenda artistica di Shimamoto è profondamente intrisa della complessità di Gutai. Di quell’esigenza di sperimentare su fronti ed in modi diversi il linguaggio egli si è fatto da sempre, e si fa tutt’ora, promotore. Le sue prime opere degli anni cinquanta, prima ancora della nascita di Gutai, stanno lì a dimostrarlo. Si tratta dei “buchi”, quadri realizzati sovrapponendo strati di carta e poi agendovi sopra col colore, sfregando la superficie fino a che questa si lacera. Si tratta di una soluzione cui Shimamoto non giunse per scelta ma quasi per caso, assumendola, però, come un elemento linguistico suo. Il problema che allora cominciava a porsi era come trattare la pittura al di fuori dei sistemi di scuola, come inventare un modo che le consentisse di essere se stessa senza i supporti della tecnica e della forma tradizionali. Ciò che gli interessava era la matericità della pittura, il suo essere cosa. Il buco che infrangeva lo schermo della superficie era proprio questo, il risultato del contatto fisico tra artista, superficie e colore; la traccia di quel contatto, l’esito di un’azione, destinata, però a rimanere privata e segreta. Non si trattava, insomma, di una scelta di tipo mentale, quanto dell’esito di una prassi. Come a dire che dietro i buchi di Shimamoto non vi è un concetto come avveniva, invece, per quelli di Fontana con cui, comprensibilmente, vengono normalmente messi a confronto. Il buco, infatti, è, nel caso di Shimamoto, quanto è prodotto da un atto. Non tanto ciò che l’artista sceglie di fare ma quanto è disposto ad accettare che accada. In questo assunto è contenuta, in nuce, tutta la poetica di Shimamoto. L’artista per lui, infatti, è colui che fa, affinché la pittura possa agire da sola. Suo obiettivo non è esprimere se stesso ma farsi tramite di un accadimento pittorico che viene accolto per quello che è, con quel tanto di caso ed imprevedibilità che tale accadere comporta.
Materia, caso, ascolto sono tutti elementi che legano intimamente Shimamoto alla cultura zen. Si tratta di un legame profondo, che mette in gioco tutti gli strati dell’essere. Proprio come accade in molti dei procedimenti dello zen, l’artista compie un gesto e poi lascia che le cose scorrano da sole, disponendosi ad accettarle per quello che sono. E, proprio come accade nello zen, questo accadere non ha una presunzione di senso, non vuole dire né tanto meno concettualizzare. L’arte non è rappresentazione – in qualsivoglia maniera essa si manifesti, foss’anche la rappresentazione di una forma – ma germinazione di un evento spontaneo, privo di un’apparente direzione propria, privo di un suo senso dichiarato, eppure in grado di mettere in vibrazione la vita.
L’atto pittorico di Shimamoto, a voler restare nella metafora dello zen, è come il colpo di bastone che risveglia il discepolo in meditazione. Non mostra e non dice, ma mette nelle condizioni di mostrare e dire. L’arte, così, anziché proporsi – come istituzionalmente accade in occidente – come estraneità alla vita – magari suo superamento, sublimazione o approfondimento, o anche mezzo per comprenderla – si dà come parte di essa: immediata e pura verrebbe da dire.
Questa idea dell’arte Shimamoto la ricava dall’insegnamento di Yoshihara e dal modo in cui questi, mentre rivelava a lui ed agli altri discepoli la realtà dell’action painting e delle avanguardie occidentali, gli mostrava anche la ricchezza e l’immediatezza del fare all’interno della propria tradizione culturale. Fu questo, dice, quanto lo colpì maggiormente assieme all’arte dei bambini (con cui a quel tempo lavorava), che è totalmente spontanea e libera; scevra da ogni preoccupazione di dover dimostrare qualcosa e, invece, totalmente donata al suo esserci, al suo esser parte fondante della vita. Le avanguardie occidentali, invece, gli rimasero sostanzialmente estranee, quanto meno sul piano della motivazione, perché su quello delle soluzioni formali una certa contiguità è innegabile. Ma se l’azione per Pollock, cui spesso il suo lavoro è accostato, aveva tutta una implicazione di tipo mentale ed esistenziale, in Shimamoto è semplicemente l’agire, in sé e per sé, senza ragioni seconde. Una sorta di puro e semplice esserci estetico.
Un simile atteggiamento affonda le sue radici nella cultura zen e trova immediati riscontri in tutta una serie di soluzioni espressive ad essa collegate. È il caso della calligrafia, cui Shimamoto, nei suoi anni di formazione, guarda sulla scia dell’insegnamento di Yoshihara. Questi, come abbiamo già detto, stava gettando un ponte tra questa forma espressiva, così intimamente legata al Giappone, e l’arte contemporanea occidentale.
Shimamoto lungo quel ponte si avvia. L’influenza più forte la ebbe da Nantembo, un calligrafo del XIX secolo, le cui opere Yoshihara fece scoprire ai giovani di Gutai. Nantembo è un calligrafo particolare. “La cosa che mi stupiva molto quando andavo a vedere questo maestro – ricorda Shimamoto – era il fatto che usava un pennello assai grande e con esso facesse lavori enormi rispetto a quelli eseguiti dai maestri calligrafi della sua epoca”, nei caratteri di quel maestro, aggiunge in un’altra occasione, “si trovavano “nijimi: sfumature/sbavature”, “kasure: sbiadimenti”, “tobichiri: schizzi/spruzzi” e “tare: gocciolature” ed altri effetti che non erano esprimibili con la pittura ad olio di quel tempo”. Ciò che colpisce l’immaginario del giovane artista è il fatto che la calligrafia nasce come un gesto unico, irripetibile ed incorreggibile. In Nantembo questo gesto si carica di una valenza nuova: la scorrettezza, l’eccedenza al canone, la difformità legata ad un caso che non solo è accettato ma, in una qualche misura, anche cercato. I caratteri di Nantembo, annota Shimamoto, non sono precisi e puliti. Ciò che li caratterizza e li rende vivi è la sgocciolatura, l’imprevisto, la macchia. La pittura, decise allora, doveva essere l’equivalente di quel gesto.
Significativamente, nella seconda edizione di “L’arte Gutai sulla scena”, la sua performance consisteva in una serie di azioni distruttive, come infrangere globi di vetro o rovesciare sul palco una montagna di palline di ping pong, che emergevano come dei flash dal buio. L’evento ruotava intorno ad un solo atto, netto, secco, assoluto. Un atto irripetibile che segnalava l’impermanenza – che è la qualità concettuale forse più tipica dello zen – dell’atto artistico da un lato e della vita dall’altro. Pur se sostanzialmente autoreferenziale, pur se rifiuta ogni forma di rappresentazione, l’arte di Shimamoto alla vita è intimamente legata. Diciamo meglio è parte dell’essere. E questo si manifesta nel suo darsi come azione. Non solo l’azione come fatto materialmente compiuto dall’artista, ma anche l’azione come condizione dell’essere. Segno e offerta di sé.
Nel 1956 questo atteggiamento nei confronti dell’arte trova la sua piena manifestazione nella soluzione tecnica che accompagnerà nel tempo Shimamoto, adeguandosi a situazioni e modi diversi: il “crash bottle”. Se i buchi rappresentavano l’esito del contatto fisico tra la mano e la superficie; se il colore vi appariva solo in forma di materia tattile, da toccare più che da vedere (e sono, infatti, per lo più monocromi dai toni neutri), con i “crash bottle” le cose cambiano radicalmente. Per alcuni versi si estremizzano, per altri esplodono sul piano di un vitalismo che è percettivo, oltre che emotivo ed esistenziale.
Il “crash bottle” è una tecnica – o forse dovremmo dir meglio una antitecnica – molto semplice. L’artista riempie di colore delle bottiglie, dispone quindi una grande tela sul pavimento ponendovi sopra (o sotto) delle pietre. Quindi scaglia le bottiglie sulla tela, dove si infrangono in esplosioni di colore. Si tratta di un approccio all’opera ed alla produzione pittorica che mette in gioco elementi diversi. L’azione, anzitutto, che ha una sua autonomia rispetto al risultato. Quando, nel 1956, in occasione della seconda mostra di Gutai ad Osaka, la rivista “Life” chiese agli artisti del gruppo di fare un reportage fotografico sul modo con cui giungevano alla realizzazione delle loro opere, il lancio di bottiglie di Shimamoto fece grande scalpore. Vi emergeva una sorta di conflitto con la tela, un impulso aggressivo, un modo vitale, energico ed incontrollato di rapportarsi all’arte ed al colore. Sembrava quasi, e Shimamoto se ne stupiva, che il processo interessasse più del prodotto. In realtà il rapporto tra prodotto e processo viveva di un sottile, instabile ed impermanente equilibrio. Se, infatti, non si può ignorare il fatto che Shimamoto utilizzasse il “crash bottle” quale mezzo per realizzare delle opere destinate ad essere esposte in quanto quadri, è altrettanto vero che il processo che conduceva all’opera non può essere limitato ad un dato puramente strumentale. I quadri realizzati con tale tecnica sono delle vere e proprie esplosioni percettive, ricche di una energia cromatica e dinamica. Tale energia non è il risultato di una scelta formale, quanto l’esito proprio del processo creativo. L’azione che conduce al quadro è parte integrante del risultato visivo. Ma è anche di più. È un atto di tipo spettacolare, dotato di un suo significato intrinseco. La pittura è il suo farsi, che si rende visibile per quello che è. Non attende, per comunicare, di tradursi in immagine, ma si esprime, anzitutto, proprio in quanto azione. La fruizione del lavoro di Shimamoto avviene, dunque, su due piani, intimamente ed inscindibilmente legati tra loro. Il suo segno estetico non si risolve né nell’opera né nell’evento che la ha generata, ma in una sorta di terrain vague tra i due: tra evento ed opera. E se il primo ha, come una sorta di destino interno, quello di dover condurre all’opera (in quanto forma della pittura), la seconda non è solo la testimonianza del processo creativo.
C’era un dato che colpiva, poi, particolarmente in questi primo lavori. L’atto di lanciare le bottiglie era carico di una violenza e di una aggressività notevoli. Negli stessi anni Shimamoto fa anche un altro esperimento orientato in tal senso. Realizza una sorta di piccolo cannone attraverso cui spara il colore sulla tela. L’intenzione è, per molti versi, analoga a quella del lancio delle bottiglie: l’opera è il risultato di un atto non intenzionale dell’artista. C’è, però, nella scelta del cannone, come in quella del lancio d’altronde, anche dell’altro. Ho parlato di violenza ed aggressività, in che senso? Non bisogna fare confusione. Non l’esaltazione della violenza, non l’assunzione della violenza come fatto estetico. La violenza, piuttosto, come sfogo e scarico rispetto ad una situazione drammatica ed ingessata, come era quella del Giappone del dopoguerra. La violenza dell’arte come reazione catartica alla violenza reale, quella della vita, di cui la guerra era stata la testimonianza più tragica. Nel 1999 Shimamoto ha avviato un’operazione che chiarisce bene quanto sto cercando di dire. La prefettura di Hyogo gli ha messo a disposizione uno spazio che accoglie al suo interno una pedana di cemento. Di fronte, su un pilastro, una incisione dichiara il titolo e l’intenzione dell’opera: “Prova di pace”. Ogni anno Shimamoto compie in quel luogo un lancio di bottiglie colorate che rigenerano la superficie e la rendono viva, alla condizione, però, che in quell’anno sia mantenuta la pace in Giappone. La forza dell’atto artistico come tenuta nei confronti della degenerazione del mondo. Una sorta di ideale diga che catalizzi le energie umane in una direzione pacifica.
Energia, impulso, forza vitale sono allora le componenti base dell’azione. Componenti che hanno una precisa valenza etica. Questo è uno degli aspetti più importanti, e forse meno conosciuti, del lavoro di Shimamoto. Fare arte, proprio perché è una scelta di vita, non può mai ridursi alla sola produzione di opere, deve essere altro. Questo altro è un richiamo alla fratellanza, alla comunione, allo scambio. Negli anni settanta, subito dopo lo scioglimento di Gutai, Shimamoto abbandona la pratica della pittura e dell’azione pittorica e dà una svolta radicale al suo lavoro. È venuto in contatto con le esperienze di Mail art, e con quelle di Fluxus in particolare. Avvia, quindi, una sua operazione orientata in tal senso. Stampa l’immagine della sua nuca rasata e la invia per il mondo, ad artisti ma anche a persone comuni, invitandoli ad intervenirvi sopra. Lo stesso farà in tutta una serie di performance in cui metterà la sua testa rasata a disposizione dei presenti perché vi agiscano o vi scrivano sopra. Non si tratta di una provocazione formale. Shimamoto si offre, in questi lavori, come una sorta di pagina bianca su cui, ed attraverso cui esprimersi. L’offerta di sé è un modo, umile, di creare un ponte fra sé e gli altri. Un ponte attraverso il quale possa scorrere una comunicazione reale, in cui si esprima il senso di comunanza. L’arte è luogo e condizione di quella comunanza. L’artista il mezzo. Più ancora, direi, che nelle opere pittoriche emerge, in questo caso, che l’artista non è colui che fa ma colui che consente che accada. Questa idea dell’arte realizza una sintesi straordinaria tra la vocazione utopica delle avanguardie e la visione esistenziale dello zen. Shimamoto riesce ad affidare all’arte la fiaccola di un’idea – la pace – senza farne un vessillo ideologico.
Non c’è etica, però, nell’arte senza estetica. Le potenzialità liberatrici e catartiche dell’atto creativo si manifestano solo nella riflessione attorno al linguaggio. Fondamentale, da questo punto di vista, è il testo che pubblica sul bollettino di Gutai nel 1957: Per una messa al bando del pennello. In esso è posta con forza una sorta di ideale vertenza linguistica tra colore e pennello. La tradizione artistica – ed il riferimento è, significativamente a quella occidentale – sembra basarsi sulla volontà di cancellare la dimensione materica del colore, per farne pura immagine smaterializzata. Il pennello è il tramite di questa volontà; la tecnica la soluzione. “Quando io iniziai a usare le sostanze coloranti – scrive – non sapevo molto sui pennelli adoperati durante il Rinascimento; ma sono sempre stato certo che ovunque al mondo il pennello ad altro non sia servito e non serva che a esprimere il colore svuotando di forza la sostanza colorante, cioè ad asservire quest’ultima allo scopo di creare colori di cui la stessa sostanza non sia altro che strumento”. La via che ha deciso di intraprendere è, invece, un’altra: superare questa “tragedia del colore” e recuperarne la forza espressiva in quanto cosa viva, materia. “Nel fare un quadro, quindi, – spiega – rappresentazione di un’immagine naturale o di un’idea poco importa, non resta che conservare quella bellezza della materia che sopravvive talora anche alla prova di forza del pennello. Io credo che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello. Se in procinto di creare non si getta via il pennello non c’è speranza di emancipare le tinte. Senza pennello le sostanze coloranti prenderanno vita per la prima volta”. Le potenzialità espressive della pittura e, tramite esse, la sua stessa destinazione etica, nascono da una scelta tecnica. Il pennello, nei termini in cui ne parla Shimamoto, è uno strumento dell’io. La tecnica ad esso legata è, per dirla con Heidegger, la estensione del corpo e attraverso di esso della volontà e della ragione. Attraverso il pennello si esprime un io tutto mentale e non a caso Shimamoto segnala i primi abbandoni di tale strumento da parte degli artisti d’avanguardia. Ma non basta. Occorre ricominciare da tutt’altra parte. Il lancio delle bottiglie è questo luogo. Attraverso di esso non è più l’artista a decretare la forma, l’immagine la composizione, ma il caso. L’opera è il risultato di un evento ed il protagonista di tale evento è il colore.
L’action painting di Pollock nasceva, per molti versi, da premesse analoghe ma c’era, nel procedimento tecnico dell’artista americano, un forte margine di controllo. Lo sgocciolamento era, in una qualche misura, guidato da un gesto organizzato e profondamente meditato. Il caso entrava certo dentro il piano di composizione ma come inquadrato dentro uno schema preordinato, mentre in Shimamoto è protagonista assoluto.
Un colore materia. Cerchiamo di capire meglio di cosa parla Shimamoto. La materia del colore è qualcosa di molto particolare: tattile da un lato, visivo da un altro. Mi spiego. Durante la ricerca sui buchi a Shimamoto interessava la manipolabilità del colore con le mani, una corporalità tattile. Lanciato attraverso le bottiglie il colore non viene più materialmente toccato ma conserva, comunque, una sua fisicità. Anzitutto perché non è tramite di altro (immagine o forma) se non di se stesso; poi perché impregna la superficie della sua fluidità; quindi perché si contamina con i resti (per lo più pezzi di vetro) del lancio. Ma c’è, credo, anche dell’altro. Shimamoto utilizza, per le sue opere, colori primari, accesi, saturi. Colori assoluti. “Il colore è il tocco dell’occhio, la musica dei sordi, un grido nel buio”, scrive Orhan Pamuk, ed è un’immagine che si adatta straordinariamente al lavoro di Shimamoto. Il colore, infatti, per lui, è materia vivente in quanto forma tangibile della luce, energia. La materia non è sostanza opaca, la sua origine, la sua qualità più autentica, è di essere una vibrazione della luce. Il colore è la forma tangibile di quella vibrazione e, in quanto tale, è energia viva. Ad ogni lancio Shimamoto consente a quella energia di sprigionarsi. Perché ciò accada, però, ha dovuto distaccarsi dal pennello, ha dovuto superare il suo io, il suo innato ed umano desiderio di esprimersi. Da questa rinuncia all’io nasce la forza vitale della pittura.
Negli ultimi anni questo modo di agire si è sviluppato clamorosamente. Il lancio di bottiglie si è come reso più complesso e vario, arricchendosi sul piano dell’azione e coinvolgendo spazi sempre più vasti. Nel 2006 a Piazza Dante, a Napoli, Shimamoto realizza uno straordinario evento performance: “Un’arma per la pace”. Lo scenario è l’intera piazza, il cui pavimento è coperto da un’immensa tela su cui è poggiato un pianoforte.
L’azione è accompagnata da Charlemagne Palestine che suona un secondo pianoforte posto di lato. Shimamoto entra nella piazza attraverso un lungo tubo morbido di tela, quasi una sorta di nascita. A questo punto, dopo aver salutato la folla in una sorta di abbraccio, inizia l’atto pittorico. L’artista è sollevato dal braccio meccanico di una gru. In mano ha una sfera composta di tanti bicchieri di plastica pieni di colore. Dall’alto li lancia con un gesto quasi serafico, molto diverso da quello impulsivo e violento degli esordi. La gru, quindi, lo riporta a terra, qui si “ricarica” e l’azione riparte, fino a quando superficie e pianoforte non sono saturi di colore.
Due dati emergono con grande evidenza da una simile performance: la estensione della dimensione dell’evento e la dilatazione del senso dello spazio. L’atto immediato e crudo di lanciare le bottiglie si è trasformato in qualcosa che ha una forte implicazione rituale e cerimoniale. Questo comporta un arricchimento del momento spettacolare che assume una sua definizione teatrale. La “macchina dell’azione”, nata per dipingere in una maniera impersonale ha ora veramente assunto una sua autonomia. L’esito pittorico è come spostato leggermente in secondo piano, sembra di assistere quasi più ad un’azione realizzata utilizzando il colore (secondo un procedimento di uso dei materiali tipico delle sperimentazioni teatrali) che ad un processo performativo messo in opera per dipingere, quale invece, nelle intenzioni di Shimamoto, è. La “macchina dell’azione” è come compiuta in se stessa. In altre performance, come a Punta Campanella nel 2008 o nei locali del negozio di design Felissimo nel 2007 è reso ancora più evidente dalla partecipazione di performer che collaborano all’azione diventando parte integrante dell’atto pittorico. A Punta Campanella si tratta di un gruppo di ragazze che indossano abiti da sposa, la cui testa è coperta da una sfera di bicchieri, che è divenuta la sua nuova “arma” pittorica. Shimamoto, in questa azione, non si limita, come a fatto a Piazza Dante, a lanciare il colore dall’alto sulla grande tela disposta al suolo, ma lo getta direttamente, da vicino – ed in una maniera in una qualche misura mirata – anche sulle spose, coinvolgendole nel gioco cromatico. Nel caso di Felissimo la soluzione adottata era simile, anche se i partecipanti indossavano dei camici o pantaloni e camicia bianchi. In altre occasioni, a Capri o alla Fondazione Morra di Napoli, il coinvolgimento poteva riguardare oggetti-memoria di diverse culture – una statua di Buddha, la Venere di Milo – o dei musicisti coi loro strumenti. La presenza della musica è un segno ulteriore della teatralizzazione dell’operazione artistica. A volte è composta dallo stesso Shimamoto, che ad essa si dedica fin dagli anni cinquanta, a volte, come nel caso di Palesatine, nasce da una collaborazione.
Più che di un’azione pittorica, parlerei, allora, in questi casi di un vero e proprio “teatro della pittura”. Vi sono presenti, infatti, tutta una serie di elementi – a cominciare dalla organizzazione dello spazio tempo in una maniera cerimoniale e rappresentativa – che appartengono al DNA del teatro e che la sperimentazione novecentesca ha posto a fondamento della rifondazione linguistica di quell’arte. D’altro canto, però, tale teatro, pur se fruibile in termini di puro e semplice spettacolo, non è che parte del procedimento artistico di Shimamoto. Questi, una volta che la pittura ha compiuto il suo corso; che il caso ne ha disegnato la trama; che l’evento si è concluso, agisce sulla grande superficie che ha disposto per terra e ne ritaglia delle tele. Alla stessa maniera recupera abiti, oggetti e strumenti e ne fa delle opere. Si potrebbe assimilare un simile procedimento a quanto fatto da alcuni degli artisti che, lavorando sul momento performativo, ne espongono, poi, le tracce. Nel caso di Shimamoto mi sembra che le cose stiano in termini diversi. Ciò che verrà esposto, infatti, non è un residuo né una documentazione o un testimone, è, letteralmente, un quadro. Se ci siamo sentiti di dire che, negli ultimi lavori di Shimamoto, la pittura entra in gioco come parte di un più complessivo teatro, ora diciamo anche il contrario, che tale teatro, cioè, esiste ed a senso di esistere solo in funzione dell’esito pittorico.
Ma possiamo dire anche altro. Quando, all’inizio della sua carriera, Shimamoto aveva visto le calligrafie di Nantembo era rimasto colpito da come, in esse, si combinassero la forma codificata e la traccia del gesto e aveva apprezzato come fosse questa, in sostanza, a scrivere più di quella. I grandi eventi performativi possono essere letti, a loro modo, come delle scritture, col mondo a fungere da pagina bianca e l’artista da pennello. L’atto immediato, concentrato e secco del calligrafo diventa, in Shimamoto, un atto del corpo. Che si fa tramite della pittura, per rigenerare, attraverso il colore, le cose con cui entra in contatto.
Lorenzo Mango